#Oscars2019 – Il Ciclo del Progresso, di Rayka Zehtabchi

Il corto-doc premio Oscar racconta, con un taglio alla Vince Gilligan di Breaking Bad, la rivoluzionaria impresa di alcune donne indiane contro il tabù sociale legato al ciclo mestruale. Su Netflix

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Tra i protagonisti della recente serata degli Oscar, Netflix, nel bene o nel male, ha sicuramente occupato una posizione di rilievo. Pur mancando il miglior film, cosa che molti hanno letto come una salvaguardia dell’Academy nei confronti della sala, la piattaforma streaming ha comunque potuto festeggiare i tre premi per Roma (per regia, fotografia e film straniero), a cui va aggiunto il ben più inatteso per il miglior corto documentario, ossia Il Ciclo del Progresso di Rayka Zehtabchi, che come il film di Alfonso Cuarón ha trovato distribuzione proprio su Netflix. Sul palco la regista e la produttrice Melissa Berton hanno sicuramente dato vita ad uno dei discorsi di ringraziamento più divertenti e commoventi al tempo stesso della serata, con la prima che si è detta incredula di aver “vinto un Oscar parlando di mestruazioni” e la seconda che ha sottolineato il forte tema sociale alla base del loro lavoro:”a period should end a sentence, not a girl’s education“. Period. End of sentence. è infatti il titolo originale del cortometraggio, che in un gioco di parole con l’inglese si riferisce in realtà al ciclo mestruale, vero e proprio tabù in India che, tra le altre cose, spinge molte giovani donne ad abbandonare gli studi pur di non dover affrontare ogni volta il proprio imbarazzo.

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Il film di Rayka Zehtabchi è allora meritevole di lode (e di Oscar) perché nel suo essere spiccatamente femminista, riesce ad aggiungere una chiave nuova e nient’affatto scontata ad una tematica tanto attuale e discussa, ovvero portandola lì dove una simile corrente neanche esiste, dove il #metoo non è nient’altro che un hashtag, dove alle donne viene detto che è inutile professare la propria religione durante il ciclo poiché tanto le loro preghiere non verranno ascoltate. La forma del documentario è quindi perfetta per cercare di scalfire le barriere culturali sull’argomento, facilmente riscontrabili nella reticenza delle intervistate, colte puntualmente in reazioni impacciate e teneramente ingenue da parte delle più giovani, a cui vengono contrapposte quelle afflitte e sconsolate delle più adulte. Come si può intuire, infatti, quello del ciclo mestruale si rivela solo lo spunto iniziale per parlare, più in generale, della condizione della donna nella società indiana, divisa tra un’ancestrale chiusura mentale e il desiderio di un cambiamento moderno e progressista.

Le mestruazioni sono il più grande tabù del mio Paese” esordisce a un certo punto del corto un produttore, maschio, di assorbenti economici, prima di informarci del preoccupante dato statistico che vede l’uso degli assorbenti diffuso solamente tra il 10 per cento delle donne del Paese. Alla base di questa sintomatica percentuale ancora la vergogna provata dalle donne di fare simili acquisti da un esercente uomo, alla presenza di altri uomini. Aspetto che denota quindi la presenza di una certa consapevolezza del problema, capace di confermare come il tabù non sia legato esclusivamente alla mancanza di educazione, ma sia dovuto principalmente ad una questione culturale.
Ed è da questa riflessione che dev’essere evidentemente nata l’idea che diventa ben presto il fulcro centrale attorno a cui ruota l’intero film, ossia quella che a fabbricare e a distribuire gli assorbenti ci siano le stesse donne. La regista pone l’accento sull’iniziativa, dando un preciso taglio al documentario, nel quale sembra citare espressamente la serie Breaking Bad, attraverso certe inquadrature e una precisa scelta della musica, come se, alla stregua di Walter White e Jesse Pinkman, le ragazze stiano cercando di mettere in piedi un’operazione tanto enorme quanto pericolosa.
Senza contare, inoltre, che l’iniziativa è strettamente correlata alla realizzazione dello stesso documentario, visto che sia quest’ultimo che la macchina utilizzata per la produzione degli assorbenti sono stati finanziati dagli studenti della Oakwood School di Los Angeles, attraverso vendite di dolci, maratone di yoga e la piattaforma di Kickstarter (per aderire all’iniziativa, basta consultare il sito ufficiale, che potete raggiungere cliccando qui).

Tra le donne che lavorano nell’impresa c’è Sneha, vera protagonista del corto perché simbolo maggiormente rappresentativo di questo progresso tanto desiderato. Dice che vuole arruolarsi in polizia per “salvarsi dal matrimonio” e quando, proprio come nel capolavoro seriale di Gilligan, l’operazione inizia a dare i suoi frutti anche dal punto di vista remunerativo, la vediamo quasi incredula nel guadagnarsi dei soldi “suoi”. L’emancipazione personale e femminile, dal suo punto di vista, finisce per assumere dei connotati quasi epici e sicuramente toccanti, col suo volerla inseguire come fosse il più grande sogno possibile.
Oltre quello economico, come anticipato, i vantaggi dell’iniziativa sono poi tutti culturali. E infatti dalle interviste della parte conclusiva, rivolte anche agli uomini, si può evincere che la vendita degli assorbenti sembra portare verso una decisiva apertura mentale. Una delle donne afferma che col suo nuovo lavoro si è guadagnata il rispetto del marito o la stessa Sneha, sempre grazie a questo, si sta pagando gli studi per diventare poliziotta. Il Ciclo del Progresso sembra chiudersi allora con un ottimistico lieto fine, per il futuro di tutte le donne protagoniste, inquadrate come vere rivoluzionarie, fautrici di un’orgogliosa coscienza comune in procinto di esplodere. Il nome scelto per il loro assorbente, d’altronde, è Fly, con la dichiarata motivazione che sia arrivato per le donne il momento di “spiccare il volo”.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=7PCt_WE6mqI]

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