Cow, di Andrea Arnold

Un documentario su un allevamento di mucche da latte, sinonimo di un dominio umano che ormai sembra totale e su un’idea di incontaminatezza sembra superata. Rimane qualche spazio per la compassione?

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Cow di Andrea Arnold comincia con un parto. Non è però una capra come ne Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, né il parto è naturale: un vitellino viene tirato fuori dall’utero di una mucca legando alle zampe del piccolo una corda, tirata da mani umane. Quando il vitellino non è ancora del tutto uscito, apre gli occhi e la prima cosa che vede non è un cielo blu o un prato verde, ma la macchina da presa che lo sta osservando. Appena il cucciolo è in grado di stare in piedi, viene contrassegnato sulle orecchie e separato dalla madre, che lo osserva andar senza averlo allattato nemmeno una volta. Viene chiuso in una piccola gabbietta, qui sì con un po’ di erba verde per terra, dove verrà allattato con un simil biberon. Nei primi giorni di vita gli bruciano il cranio con un ferro rovente, in modo che da grande non crescano le corna. La madre si è stancata di muggire e non chiama più il piccolo. Intanto, nel cielo, vola alto un aereo.

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Forse, di tutte le immagini riportate sopra, è proprio quest’ultima quella centrale nel primo documentario della regista di Red Road e American Honey, che ritornerà spesso in diverse forme ma con la stessa sostanza. Un paesaggio tagliato da una ferrovia, un cielo stellato inquinato dalle luci della città, una mongolfiera che fluttua sopra l’allevamento: il crudo mondo di Cow è completamente modellato dall’umano, qualsiasi idea di natura incontaminata non può che sembrare naif. L’elemento umano si impone su tutto, anche sui corpi degli animali, compreso quello della madre che i lavoratori chiamano Luma ma che lo spettatore può riconoscere solamente attraverso le cifre, 11 29, scritte sul suo posteriore.

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andrea arnold

È chiaro sin dall’inizio come Arnold cerchi di far viaggiare la sua denuncia sulle strade già battute del pietismo, che si scontra con lo sguardo impietoso. La macchina da presa tallona, mobile e nervosa, i suoi soggetti anche negli spazi più angusti, cercando di aderire al loro campo visivo e, per questo, evitando quasi sempre di inquadrare esseri umani se non per dei piccoli dettagli. La regista cerca di non cadere nell’illusione che il punto di vista della macchina possa emanciparsi da quello umano. Gli animali ne risultano antropomorfizzati, le occhiate si velano di rancore o di paura, i muggiti di rabbia o disperazione.

Qualsiasi impressione di sentimenti positivi scaturisce solo dalla vicinanza con gli animali, come se lo sguardo umano ne fosse stato svuotato. Quasi che in questo disperatissimo quadro del dominio totale dell’umano non ci fosse spazio per la compassione. Vengono in mente le parole che il filosofo Henri Laborit pronunciava in Mio zio d’America di Alain Resnais, che in maniera disillusa vedeva la mente umana, al pari di quella di qualsiasi altro animale, costruita per dominare l’altro. Ora che il dominio sembra completo, totale, cosa rimane?

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.43 (7 voti)
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