FESTIVAL DI ROMA 2014 – Il cinema horror tra nostalgia e verità nascoste. Masterclass con Brad Anderson

stonehearst asylum di brad anderson

Manlio Gomarasca ha moderato l’incontro con il “regista dell’orrore” Brad Anderson che dopo il successo ottenuto con l’ultimo film The Call nel 2013, ha presentato in prima europea nella sezione Mondo Genere il lungometraggio Stonehearst Asylum, adattamento cinematografico della novella di Edgar Allan Poe The System of Doctor Tarr and Professor Fether.

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Manlio Gomarasca ha moderato l’incontro con il “regista dell’orrore” Brad Anderson che dopo il successo ottenuto con l’ultimo film The Call nel 2013, ha presentato in prima europea nella sezione Mondo Genere il lungometraggio Stonehearst Asylum, adattamento cinematografico della novella di Edgar Allan Poe The System of Doctor Tarr and Professor Fether. Una nuova tappa del suo cammino da cineasta indipendente affascinato da personaggi in bilico tra “follia e normalità”.

 

 

Il film prende le mosse dal racconto breve, tra l’altro uno dei meno noti, di Edgar Allan Poe The System of Doctor Tarr and Professor Fether. Come lo hai adattato per la sceneggiatura?

La sceneggiatura è stata scritta all’incirca 15 o 20 anni fa da Joe Gangemi. Nel corso degli anni lo script ha attirato l’attenzione di molti registi e attori ma per vari problemi non è mai partito il progetto. Io l’ho letto due o tre anni fa e mi ha colpito particolarmente quell’atmosfera gotico-romantica che lo contraddistingue. Joe ha adattato la sua sceneggiatura per un lungometraggio, ciò che rimane del racconto di Poe è il personaggio di un giovane dottore che va a studiare seguendo l’esempio di un medico più grande ed esperto che lo guiderà nel suo percorso, per poi scoprire che il medico stesso è in realtà un paziente a capo del manicomio. Un eroe folle con buoni intenti. In più c’è l’intensa storia d’amore che s’insinua nel contesto horror-gotico.

 

 

Mentre lavoravi per questo film nelle sale usciva Shutter Island con il quale condivide molti aspetti in comune, tra cui la presenza di Ben Kingsley. In che modo hai tentato di distinguere Stonehearst Asylum?

Come dicevo prima la sceneggiatura è stata scritta da Joe vent’anni fa. Devo dire che non ho dato peso alle possibili somiglianze, ad essere sincero ne vedo di più con Session 9! Poi questo è un film in costume, ambientato nel 1890, non credo ci sia poi tutta questa aderenza.


 

Nei tuoi film i personaggi non sono mai completamente positivi o completamente negativi , come per esempio in Session 9 o The Machinist. Sembrano non accettarsi del tutto. Cosa ti affascina di questa ambiguità?

Mi affascina la verità nascosta che soggiace in ognuno di questi personaggi. Per scoprirla intraprenderanno un viaggio alla ricerca del mostro celato dentro di loro. Per questo amo il filone dell’horror psicologico, prendendo sempre l’esempio di grandi maestri come Hitchcock o Polanski, di cui ho nostalgia . Alla fine c’è sempre la realizzazione dopo la tormentata ricerca. Anche film come Don't look now o Body Snatchers ne sono un esempio.

 

 

Oggi sei considerato un “regista dell’orrore” eppure ai tuoi esordi hai realizzato commedie romantiche tra cui il primissimo film del 1996 The Darien Gap che ha vinto il Gran Prix della giuria al Sundance. Puoi spiegarci come si è sviluppato il tuo percorso autoriale?

La mia è una filmografia da guerrigliero. Ovviamente indipendente. Il primo film, costato ventimila dollari, presi in prestito da amici e familiari, girato in 16 mm e contaminato da filmati di repertorio personali, lo considero un vero e proprio manufatto d’amore. Con Next Stop Wonderland invece ho messo in scena la mia esperienza personale, scrivendo la sceneggiatura con il mio amico Lyn Vaus ed è stato fantastico vederlo uscire nelle sale, distribuito da Miramax Films. La vera svolta però è stata con Session 9. Il mio è un andare avanti e indietro tra i generi thriller, horror, commedia. La verità è che non voglio essere categorizzato, i miei sono una serie di film eclettici, ognuno importantissimo per la mia vita.


 

Torniamo su Session 9, considerato uno dei film più spaventosi degli ultimi anni. Com’è nata l’idea per la stonehearst asylum di brad andersonsceneggiatura?

Come spesso accade per i miei film è stato proprio il luogo (un manicomio abbandonato del Massachusetts) ad ispirare la sceneggiatura. Mi ha affascinato scoprire che proprio in quel posto si è sperimentata per la prima volta la lobotomia. Gli operai protagonisti fanno i conti con le proprie paure che degenerano nella follia. Ho preso spunto dall’insegnamento di Kubrik, uno dei miei maestri, tentando di ricreare quella particolare atmosfera dettata dal luogo stesso, come lo è l’albero di Shining, anche attraverso la manipolazione del suono. Ho provato a suscitare, attraverso quella che può considerarsi una poesia tonale, una tensione angosciate nel pubblico che via via si sente sempre più a disagio. L’obiettivo era creare una “scomodità” di fondo. Anche per il film Transsiberian sono partito dal luogo claustrofobico del treno, prendendo spunto dal viaggio affrontato in gioventù da Pechino a Mosca, in cui ho incontrato una serie di personaggi stravaganti con i quali ho condiviso intere giornate di racconti ed avventure. Nonostante il mio amore per la Russia e i suoi grandi autori, il film è stato girato in Lituania perché non ho voluto sottostare ai diktat della mafia.

 

 

Com’è stato per te girare in Europa un film come The Machinist dovendo  ricreare le atmosfere di una città americana a Barcellona?

Mi è stata concessa molta libertà. La città sullo sfondo è volutamente una città generica, irriconoscibile, e crea un senso di alienazione proprio perché non si capisce esattamente dove siamo. Lavorare con Christian Bale è stato davvero facile ed emozionante. Lui aveva letto la sceneggiatura e ha cominciato fin da subito a studiare il personaggio Travor, descritto come uno scheletro umano. Mi sono spaventato quando Christian si è presentato sul set estremamente dimagrito, consumato. Poi ho capito che era proprio la scelta giusta da prendere. Lo vedevi nella pause da solo a fissare il vuoto, completamente alienato. Solo alla fine delle riprese è tornato ad essere il Christian di sempre: una persona estremamente affabile, dolce.

 

 

Vanishing on 7th Street è il primo vero film dell’orrore puro. Come sei arrivato a girare questo film che ha un senso alla Twilight Zone?

Anche in questo film si percepisce la presenza del mostro, ma non si sa esattamente cosa esso sia. È una minaccia incombente che si reifica nell’oscurità ed è proprio ciò che un cineasta manipola: il gioco di luci ed ombre. È stato molto interessante al livello visivo.

 

 

Dopo il successo di The Call con la protagonista Halle Barry, torni a parlare di una donna forte con il personaggio di Eliza Graves in Stonehearst Asylum. Cosa ti affascina di questo aspetto, dell’energia che tramettono questi personaggi femminili?

Per prima cosa vorrei dire che mi dispiace molto che il titolo sia stato cambiato: Stonehearst Asylum non significa nulla. Il personaggio di Eliza è ciò che da senso a tutta la storia. Lei è imprigionata, come in una bara, e ritrova se stessa attraverso il sentimento che nasce assieme ad una persona che come lei ha qualcosa di irrisolto. Sono due personaggi “spezzati” che si ritrovano e la loro pazzia si risolve proprio perché sono insieme. The Call ha avuto molto successo ma non ho goduto della stessa libertà creativa. “Il problema” di dover realizzare un film mainstream per fare soldi è prorpio questo. Guardando all’odierna cinematografia statunitense fatta di Blockbuster incentrati su supereroi, prendendo d'esempio il filone della Marvel, è chiaro che tutti gli investimenti vanno ad incanalarsi prorpio su questi generi. È chiaro che accade questo quando il target di riferimento oscilla su una fascia d’età che comprende spettatori dai 15 ai 17 anni. Da un certo punto di vista è anche interessante parlare a quel tipo di pubblico ma a me non interessa. Io voglio fare i miei film, rivolgendomi ad un pubblico adulto ed è difficile ottenere tanti soldi per un film diverso, intelligente, se non ti chiami David Fincher. Ma comunque io non posso lamentarmi. Sono esattamente nel mezzo tra il low budget e investimenti da capogiro. Per quest’ultima esperienza il mio desiderio di realizzare un film in costume è stato esaudito e poi, tra un film e l’altro, c’è sempre la Tv che mi fa respirare.

 

 

Ecco parlaci della tua esperienza in Tv. Com’è stato dirigere episodi di serie come Fringe, The Wire, Maters of Horror?

Direi molto interessante. Certo anche qui non godi della stessa libertà concessa nel girare un tuo film, ma per Fringe ho realizzato un episodio dove i protagonisti si trasformano in pipistrelli e non l’avevo mai fatto, per cui è stato molto divertente! Poi c’è da dire che le serie antologiche non funzionano bene in America, però dirigere attori che sono entrati da tempo in sintonia con il personaggio è molto facile. Stai lì a guardarli, ad ascoltare i loro suggerimenti e tutto viene da sé. Ultimamente mi è capitato di girare una puntata pilota per una nuova serie e finalmente mi sono ritrovato a dettare io le regole, l’atmosfera che qualche altro regista dopo di me dovrà seguire. L’ulteriore proposta che spero mi sia concessa è girare una puntata di The Walking Dead!

 

 

Ultima domanda su Stonehearst Asylum. Il film sembra girato su pellicola, con una fotografia eccellente. Come hai lavorato al livello tecnico?

Non ho lavorato su pellicola. Quell’effetto l’ho ricreato premendo un pulsante sulla mdp e aggiungendo quella patina particolare in postproduzione. Come tutti ho lavorato in digitale ma non posso dire se è meglio o peggio. È solo diverso.

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