BellariaFF – Lezioni di Cinema. La masterclass di Bruno Dumont

Il cineasta francese ha tenuto una masterclass a Bellaria nella quale ha parlato del suo approccio con la verità e il cinema, che passa spesso tramite la conciliazione di mondi agli antipodi

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Nel programma del Bellaria Film Festival è presente, in anteprima nazionale, l’ultimo film di Bruno Dumont. L’Empire è stato presentato in concorso alla 74esima edizione del festival di Berlino, aggiudicandosi il premio della giuria. Ambientato nel nord della Francia, più precisamente nella Côte d’Opale, il film di Dumont è uno sci-fi grottesco e realistico allo stesso tempo, in grado di conciliare abilmente le derive (apparentemente) più distanti del Cinema. Nel suo modo di lavorare infatti Dumont non nasconde una certa voglia di ribaltamento, di sovversione, anche a fronte di una lunga carriera da cineasta che lo ha portato ad esplorare più generi e tipologie di storie. Con L’Empire il regista francese è riuscito, col suo personalissimo tocco, a dare un senso alla famigerata battaglia tra bene e male, tanto cara al canone hollywoodiano più classico. “Personalmente guardo tutti i film possibili. Poi quando si tratta di crearne di miei raccolgo le influenze che più mi hanno suggestionato e le unisco, per creare delle forme nuove e inedite” ha detto Dumont durante la presentazione del suo film.

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La masterclass si è aperta parlando proprio della coesione che il cineasta riesce a creare tra i diversi generi, specialmente pensando al contemporaneo, dove la necessità di incasellare e catalogare ogni prodotto è quasi spasmodica. Autorialità festivaliera e mainstream hollywoodiano. Queste due facce della stessa medaglia riescono a convivere nel film di Dumont attraverso una definitiva messa a nudo della materia e del linguaggio cinematografico. Da dove nasce la voglia di portare in scena questo contrasto? “Come voi sapete non ho frequentato una scuola di cinema. Sono approdato al cinema attraverso la filosofia, che ho studiato e rispetto al discorso delle due realtà del cinema direi che sono due aspetti fortemente in contrasto. A me interessa la rappresentazione delle stesse per poterle mettere in paragone. Nel caso dell’universo hollywoodiano la verità è chiara e ben distinta: il male e il bene, il brutto e il bello. Tutto è diviso e chiaro e definito. Nell’altro caso, del cinema d’autore, il confine non c’è affatto. È possibile davvero creare una fusine di moltissime cose.”

Ma ad essere conciliati, ne L’Empire, sono anche due aspetti altrettanto in opposizione ovvero il tragico e il comico. “Ho scopeto, devo dire anche turbandomi, che spessissimo l’aspetto tragico coincide con il comico. E ho scoperto la realtà della tragedia quando ho fatto un film, Camille Claudel 1915. Questo film è veramente una tragedia perché parla del ricovero di una grande artista allieva di Rodin che è finita in ospedale psichiatrico. Nel film l’artista è stata interpretata da Juliette Binoche. E nella preparazione che Binoche faceva per calarsi nel personaggio e nell’intensità della sua interpretazione ci sono stati dei momenti di tensione che sono stati allentati proprio dalla risata; scoppiavamo a ridere durante la sua interpretazione in grasse risate, per stemperare la tensione. Lì ho capito che nel momento di intensità massimo di massima intensità subentra esattamente l’opposto, cioè l’intensità della risata. Nel personaggio del folle, c’è comunque un aspetto divertente, a prescindere da quanto inquietante possa essere.”

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“Questo è vero anche per il discorso dei due mondi del cinema di cui si parlava prima. Se è vero che nel mondo del cinema canonico hollywoodiano il comico è distinto dal tragico senza possibilità alcuna di mescolanza secondo me nel mondo reale questi due mondi sono profondamente influenzati. Ed è questo il motivo per cui metto il pubblico in una situazione spiazzante. Presento delle situazioni che sembrano apparentemente grevi che poi mostrano un aspetto tutt’altro che serio. Questo è difficile da elaborare per la nostra mente. Per me resta un aspetto interessante. Ed è per questo che anche dirigendo gli attori li metto nella situazione psicologica di cambiare costantemente registro; proprio per solleticare il cervello di ciascuno di noi e di voi, del pubblico” ha spiegato il regista.

Spesso i protagonisti dei film di Dumont sono ragazzi, o più precisamente giovani uomini. Lo vediamo, oltre che nei paladini de L’ Empire anche in Hadewijch, raccontando del compromesso tra la realtà e la crescita. Da cosa nasce quindi questa affezione ai temi della crescita? “Quando ero un giovane cineasta avevo parecchie difficoltà a dirigere gli attori professionisti, spesso non riuscivo a farmi capire. È stata dura per me, ed è per questo motivo ho scelto di affidarmi ad attori non professionisti. L’attore professionista voleva sapere da me delle cose che nemmeno io sapevo spiegare. Ho cominciato a girare dei documentari nelle fabbriche, e guardando gli operai mi sono reso conto che erano esattamente quello che io volevo. La verità. Ed è per questo che per interpretare un operaio non volevo un attore che interpretasse un operaio; ma un vero operaio. Perché la verità era nelle sue mani. Ed è lì che ho scelto di non lavorare con professionisti. Perché questi giovani sono freschi, naturali, e socialmente esatti nella posizione che desideravo. La mia idea era quella di accogliere tutto quello che mi avrebbero proposto. poi questi non-attori sono diventati i personaggi. C’è naturalmente una sceneggiatura e una storia, il mezzo che riceve la realtà che volevo nei miei film però l’ho raggiunta attraverso vari fattori: gli ambienti e le persone con cui ho lavorato. La messa in scena e la macchina da presa non fanno altro che radiografare la verità.”

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