John Wick 4 – Parigi capitale (del cinema) del XXIV Secolo

Nel mondo di John Wick la morte non esiste, esiste, semmai, la metamorfosi. E allora Parigi non può che essere il luogo in cui il cinema analogico diventa, pienamente, un fatto digitale

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Coloro che si aggrappano alla morte, vivono,

 

Coloro che si aggrappano alla vita, muoiono.

È come un mantra, una frase che infesta la caccia di John Wick, quasi il contraltare di quel “li ucciderò tutti! Tutti!”, un altro mantra, che però stavolta guida le sue di azioni, orienta i suoi colpi. Ma se la saga di Reeves/Stahelski si ambienta in una sorta di non tempo, un presente/futuro indefinito, parlare di morte non può che essere problematico. Lo raccontano benissimo certi atteggiamenti dei personaggi, certe interazioni tra di loro. Il protagonista discute ad esempio i dettagli della sua sepoltura con l’amico Winston mentre poco prima, nel rifugio del Re della Bowery, aveva convenuto con l’alleato, che il suo tradizionale abito in kevlar sarebbe stato perfetto per la sua sepoltura. È tranquillo, sa che è arrivato alla fine del viaggio.

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Non è soltanto una concessione al tradizionale immaginario del cavaliere solitario, stoicamente conscio del suo destino. Come l’altro prodotto cardine del Keanuverse, The Matrix, il franchise di John Wick è infatti legato a doppio filo ad una forma mentis tipicamente buddhista. È, a ben vedere, una saga sul cambiare stato, sul mutare dell’immagine, quella di John Wick, lo si è già detto a profusione, ovvio, quello però su cui, forse, ora è necessario portare l’attenzione è il coraggio che si percepisce in tralice a ogni fotogramma di questo quarto capitolo, che ragiona di cinema digitale stando già dentro a quel medium, riflette sulla mutazione delle immagini mentre quella mutazione è in corso. Anche per questo la morte, nel mondo di John Wick, non esiste. Perché tutto cambia ma tutto è già cambiato, perché i dati, i pixel, i bit, che formano le immagini digitali, non possono mai morire davvero.

Se esiste qualcosa al di là del nostro mondo sensibile, allora, al massimo si può parlare di illuminazione.

John Wick

E allora è abbastanza evidente che quest’ultimo viaggio globethrotter di John Wick, diviso in tre grandi atti, tre grandi scontri a fuoco, ma soprattutto tre metropoli, è un percorso atto a definire un contesto, i caratteri alla base di un rapporto nuovo, futuribile con l’immagine, dal cinema installativo di Osaka, al rave di Berlino, sorta di profezia di un cinema tattile, responsivo.

Fino a Parigi, la Parigi del protocinema, quella dei Lumière, della fantasmagoria di Benjamin. Forse non c’è luogo migliore per ragionare su un nuovo modo di intendere il rapporto tra noi e le immagini, forse non c’è città più centrale per capire, ancora meglio, dov’è finita quella stessa fantasmagoria.

Ma Stahelski è metodico, sa che la materia è talmente delicata che se venisse approcciata in modo frettoloso gli potrebbe sfuggire dalle mani, il Cinema Dei Dati va approcciato per gradi.

Per questo il vertiginoso ultimo atto è diviso in altrettanti movimenti che raccontano la corsa del protagonista verso il Sacre Coeur ma contengono anche in loro, altrettanti sguardi sul cinema digitale, in una lenta progressione verso il Nirvana.

Primo Movimento (VII Arrondissement)

Good news, boppers we have a sighting

 

Our Man In Black has been spotted in the 

 

7th Arrondissement

Malgrado certi segnali sembrino dirci il contrario, nei primi minuti della fuga siamo ancora in uno spazio assimilabile a quello analogico, in un immaginario definito, a contatto con quella che potremmo definire come “tradizione”: la voce “guida” della Dj, di fatto un calco dai Guerrieri di Walter Hill, Paint It Black degli Stones in soundtrack, il primo contatto tra il protagonista ed i killer costruito come una sparatoria di Melville. Ma tra le immagini pare farsi strada la volontà di congedarsi da quegli spazi. Appena può, il film riprende quota, John Wick sale in macchina e prosegue la sua fuga. È un passaggio centrale del discorso di Stahelski. Attraverso quell’auto, che il protagonista usa come un’arma, investendo i suoi inseguitori, lanciandoli contro i muri o le altre macchine, non fa in effetti altro che riproporre il primo “signature stunt” della saga, che torna moltiplicato (come un’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica, direbbe, ancora, Benjamin), “copi-incollata”, come a definire una nuova sintassi di pensiero, tutta digitale, come, più pragmaticamente, a prendere possesso in modo massivo di uno spazio preesistente.

 

Secondo Movimento (Arc du Triomphe)

It seems that our friends at the guild, 

 

drop the ball, and now it’s running to

 

the Arc de Triomphe 

 

Eccolo, lo straordinario signature stunt di questo quarto capitolo, la sparatoria al centro del trafficatissimo Arco di Trionfo che coinvolge John Wick, i suoi killer e decine di comuni automobilisti. La scrittura scenica di Stahelski è come sempre giocosa ma qui i suoi discorsi si fanno evidentemente più definiti. Alla base c’è, ancora, il linguaggio del musical classico, quello di figura, ma il lavoro sulla figura umana viene estremizzato portando alla luce le linee di quella gamification che pare ancora l’unica direttrice possibile per costruire un’idea di Cinema Futuro. I passanti, inerti alle sollecitazioni sembrano veri e propri Personaggi Non Giocanti, i killer, colpiti dalle pallottole reagiscono come vere e proprie Rag Doll e tutto il setup della sparatoria pare venire fuori da una lobby Role Play di Grand Theft Auto Online. E quando l’azione si sposta al chiuso lo spazio si popola di spunti che ormai non fingono neanche di riferirsi ad un contesto analogico: il passo è quello di un qualunque Battle Royale uno contro tutti, lo sguardo si verticalizza in un piano sequenza che guarda apertamente ad uno shoot em up come Hotline Miami ma il segno più evidente che qualcosa è cambiato forse si intravede nei clamorosi impatti dei traccianti sui corpi dei nemici, che quasi si smaterializzano come qualsiasi villain di un qualsiasi gioco d’avventura.

 

Terzo Movimento (Scalinata del Sacre Coeur)

Mr Wick has the church in sight,

 

We are almost out of time, last chance to win the prize,

 

Before Mr Wick’s last sunrise

È come fare il giro e ritornare all’inizio, ma farlo sapendo che lo spazio da cui si riparte non è lo stesso da cui era iniziato il viaggio. I 280 scalini che John Wick è costretto a salire mentre è assediato da stuoli di assassini che hanno il solo obiettivo di impedirgli di arrivare in tempo al luogo del duello è davvero lo stadio finale di un racconto che per quattro film ha stilizzato i suoi elementi fino all’osso. Ora tutto, in effetti, si gioca su un dispositivo narrativo essenziale, una scala che può davvero essere metafora di ogni narrazione possibile, anche quella di un videogame, di cui ricrea una sorta di dinamica zero tra player, avversari, spazio di gioco, perfino “tradizione” (la sintassi è in effetti identica a quella dell’esordio di Super Mario, quello in cui doveva scontrarsi contro Donkey Kong, giusto per citare un titolo tra i tantissimi).

E ormai la rivoluzione pare avviata, al di là di tutto ciò che il corpo-film possa fare per bloccare il processo. Come il duello, che sembra davvero un punto fermo, violentissimo, ad ogni afflato di riscrittura dello spazio analogico ma Stahelski guarda a Ford, a Scott, a Leone o alla Rockstar di Red Dead Redemption 2?

È una domanda lecita, in fondo, malgrado gli sforzi della Gran Tavola, l’alba è sorta, con buona probabilità ci troviamo comunque di fronte ad un nuovo giorno, un nuovo cinema.

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