La distanza, di ENECE Film

Un racconto antiretorico dal forte valore etnografico e di ricerca visiva, incentrato su una famiglia di pastori della Bassa padana lombarda. Il vincitore del Laceno d’oro 2021

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Esiste qualcosa di estremamente primordiale nel territorio della Bassa padana, una sorta di connessione con un ordine naturale primigenio. Grandi autori del passato, nati e cresciuti lungo il Po, hanno sentito il bisogno di raccontare ognuno a modo proprio questa terra, prestando sempre particolare attenzione al rapporto simbiotico e rituale dell’uomo con la natura. Giovannino Guareschi affermava con orgoglio ed ostinato campanilismo che “il Po inizia a Piacenza“, mentre due cineasti del reale come Michelangelo Antonioni ed Ermanno Olmi hanno deciso di mettere in scena la loro terra natia con attento sguardo documentaristico ed intento antropologico. L’idea alla base del film La distanza, diretto dal collettivo milanese ENECE Film col supporto dell’Archivio di Etnografia e Storia Sociale di Regione Lombardia, nasce esattamente da questo impulso di ricerca etnografica sul territorio.

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I protagonisti dell’opera sono i componenti di una famiglia di pastori della Bassa padana. Il loro è un mestiere antico e faticoso tramandato da generazioni, il quale dipende oramai interamente dalle moderne dinamiche dell’industria globalizzata. Il film è suddiviso in cinque atti, ognuno dei quali introdotto da un titolo che in qualche modo concede una chiave di lettura privilegiata allo spettatore. Nella prima sequenza, dal titolo Alessandra si è sposata a ventuno anni, vengono presentati la madre e i due fratelli all’interno del proprio cortile. Uno dei fratelli ripara la catena di una motosega mentre Alessandra allatta con tenerezza materna un piccolo agnellino. Sono brevi istanti di quotidianità ripresi da una camera fissa apparentemente invisibile, ma chiamata spesso in causa dallo sguardo dei soggetti filmati. Il secondo atto si apre con una lunga ed ipnotica inquadratura di pecore al pascolo, seguita dal momento vertiginoso nel quale uno dei giovani ascolta alla radio Rolls Royce di Achille Lauro. Un brano di questo tipo appare quasi anacronistico inserito nel contesto rappresentato e proprio per questo motivo acquista maggiore forza e significato.

Nel terzo atto ci viene presentato zio Michele, un uomo barbuto con un cappello bianco, seguito come un’ombra da due grossi maremmani. Zio Michele è il pastore di un’altra generazione, una sorta di burbero cowboy della Bassa padana. Le sue pecore pascolano su un prato adiacente un qualche tipo di fabbrica, con tanto di ciminiera e grandi cisterne. Il contrasto è netto ma questi due mondi sono costretti a coesistere. Pastori come zio Michele sono in via di estinzione, schiacciati da una politica agroalimentare che non si preoccupa di tutelare il piccolo allevatore. Nel quarto capitolo ci ritroviamo catapultati all’interno del gregge, alla stessa altezza del bestiame. All’improvviso due uomini caricano violentemente le pecore su un furgone. Lo spazio è stretto, claustrofobico. Il belare delle bestie si fa sempre più insistente e nervoso, mentre l’inquadratura traballa a causa delle vibrazioni metalliche del furgone. Arrivati al macello, un uomo lavora il bestiame mentre qualcuno invoca il suo Dio in arabo. Qui la morte e il dolore ci vengono celati, restano solo i rumori, le carcasse e un campo di stoppie oramai esausto. L’ultimo atto ha un titolo molto forte ed esemplificativo: Luca non parla con suo padre da diversi anni. Uno dei due fratelli si trova nella sua roulotte durante una pausa dal lavoro nei campi. Luca mangia pane e salame in una lunga e silenziosa inquadratura fissa. Allo spettatore viene concesso tutto il tempo e lo spazio per provare ad immaginare cosa possa nascondere quello sguardo così sfuggente. Un esercizio forse vano, ma comunque irrinunciabile.

La distanza possiede grande valore come testimonianza di ricerca etnografica, ma soprattutto come sperimentazione visiva cinematografica. La narrazione è assolutamente antiretorica, così come lo sguardo è puro ed al contempo imparziale. Alcune inquadrature non possono che ricordare le opere di Michelangelo Frammartino (Le quattro volte, Il buco), non solo per le ambientazioni ed i soggetti inquadrati ma per l’approccio. La distanza lascia la possibilità allo spettatore di trarre in autonomia le proprie conclusioni, senza alcun tipo di facile condiscendenza. Il montaggio è in funzione del dispositivo, tutto ciò che esprime e comunica è solamente la pura immagine. Il collettivo ENECE Film si astrae dai condizionamenti dei generi e dalle convenzioni che separano documentario e finzione, ponendosi come unico proposito l’obiettività della rappresentazione. Umano o animale che sia, il punto di vista è puro.

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