Magia nera. Beyoncé e le streghe
L’esperimento di Lemonade veicola un matriarcato primordiale e magico, circolo esoterico di iniziate che spartiscono gli stessi segreti della Michelle di 10 Cloverfield Lane e della Witch di Eggers
Torniamo ancora sui temi di Sentieri Selvaggi Magazine n.21.
Vi aspettiamo oggi alle h 19 a Roma.
Nonna, l’alchimista.
Sei riuscita a ricavare il meglio da questa vita difficile. Hai trovato la bellezza nelle cose lasciate dagli altri.
Sei riuscita a trovare un barlume di speranza in ciò che sembrava spacciato.
Hai trovato l’antidoto nella tua stessa cucina. Hai infranto la maledizione con le tue stesse mani.
Hai tramandato queste preziose informazioni a tua figlia che poi le ha tramandate a sua figlia.
Il campionamento è una delle filosofie-chiave dell’armamentario culturale e popolare black, ed è assolutamente cruciale per comprendere in quale direzione approcciarsi ad eventi di portata gigantesca come questo Lemonade: Beyoncé “potrei essere il prossimo Spike Lee” (lo dice sul serio ad un certo punto!) frulla insieme le vertigini di una manciata di maestri visionari del videoclip (tra cui l’incredibile Jonas Akerlund di Telephone, in qualche modo il bisnonno di Lemonade), filmini familiari e riprese di “volti comuni” per strada, Malcolm X (“la persona meno rispettata, meno protetta d’America è una donna di colore”) e i versi della poetessa di origini somale Warsan Shire dei Black British Poets.
Il risultato è senza ombra di dubbio epocale, per quanto non così inedito come potrebbe sembrare a molti: nel 1988 Michael Jackson tirava fuori l’esperimento ancora più pantagruelico di Moonwalker (che fu anche videogame), tenendo insieme frammenti video diretti da registi diversi con riprese di esibizioni live e il racconto della sua lotta contro il gangster Joe Pesci che ha preso in ostaggio tre bambini che vanno assolutamente salvati.
Chiunque abbia dato un’occhiata al prodotto non potrà aver dimenticato il mega-robottone in cui Jackson si trasforma nel finale, apice della megalomania kolossal e dell’autoproclamata divinizzazione del Re del Pop. Quella sorta di monumento meccanico in Moonwalker svolge probabilmente lo stesso compito dell’ultimo atto di 10 Cloverfield Lane: improvvisamente, inaspettatamente, tutto si fa più grande.
E’ un’intuizione dello sceneggiatore Damien Chazelle, che Tasha Robinson ha acutamente letto in chiave di superamento definitivo del reale trauma che affligge la protagonista Michelle: quello dell’abuso domestico.
La sfida della protagonista del film di Trachtenberg è quella di spezzare il controllo fisico e
psicologico esercitato su di lei dal personaggio di John Goodman, ma attraversare la porta di casa potrebbe non bastare per riguadagnare libertà e fiducia in se stessi: anche Beyoncé attraversa lungo tutta l’ora di Lemonade un percorso di accettazione e perdono che riguarda la sua relazione con il compagno fedifrago Jay-Z (le fasi sono Intuition, Denial, Apathy, Emptiness, Accountability, Reformation, Forgiveness, Resurrection, Hope, Redemption).
E’ interessante che si tratti di parabole, come in buona sostanza anche quella della Lisistrata a Chi-raq, in cui la femminilità ricopre un ruolo di importanza fondativa (pure la Michelle di 10 Cloverfield Lane affronta la fine di un amore, che la porta all’incubo domestico del film). E infatti la risoluzione proposta da Beyoncé è una specie di matriarcato primordiale e magico, circolo esoterico di iniziate che spartiscono le stesse radici e gli stessi segreti sugli uomini, il ruolo della donna, l’orgoglio di un popolo, e la limonata (anche musicalmente l’album prosegue lungo la medesima a via, recuperando sonorità e suggestioni roots di hammond, fiati, bassi funkeggianti).
Le immagini subliminali di Lemonade che incoronano in Beyoncé una sorta di sacerdotessa fiammeggiante di un culto virginale arcaico degno dei dettami di Crowley lo affiancano ad un’altra recente hit della rete come The VVitch di Robert Eggers, ultimo pupillo del Sundance. La storia è quella della teenager Thomasin che, dando ascolto ad una night goat, sfugge al giogo soffocante dell’educazione del padre (Mi ricordi mio padre, un mago capace di essere in due posti contemporaneamente. E per adeguarti agli uomini della mia famiglia, torni a casa alle tre di notte e mi dici bugie) per entrare nel club immortale delle donne libere che svolazzano nude nella foresta.
Ma al di là della ricerca esasperata e decisamente irritante di un’autorialità forzata da sconquassare con assalti fulminei di orrore stilizzato e arty, il sabba imbastito da Eggers ci interessa qui ancora una volta nell’ottica del campionamento, che il regista in questo caso mutua dal rigido indottrinamento della tradizione puritana. Questa storia di possessione demoniaca in fattoria del New England, 17esimo secolo, vive di note a margine di corretta e erudita simbologia occulta, ed è stata costruita partendo da effettivi verbali di processi alle streghe, e testimonianze di stregoneria.
Come le fonti spurie di Lemonade, il legame indefinito tra 10 Cloverfield Lane e il capostipite di Matt Reeves, o quella vhs di Moonwalker consumata in un’intera estate di visioni quotidiane a casa del mio amico Gianpaolo, la base di ogni elitarismo è l’iniziazione, e l’obiettivo ultimo quello di tramandare: Ho ingoiato una spada. Sono levitata nel seminterrato.Ho confessato i miei peccati e sono stata battezzata in un fiume. Mi sono inginocchiata ed ho detto “Amen” e l’ho detto sul serio. Mi sono frustata da sola sulla schiena e ti ho chiesto, inginocchiata, di dominarmi. Mi sono buttata in un vulcano, ho bevuto il sangue, ho bevuto il vino. Mi sono seduta da sola e ho pregato e mi sono piegata per cercare Dio. Poi ho visto me stessa e ho pensato di aver visto il diavolo.