Rendez-vous 2020 – Conversazione con Arnaud Desplechin

La nostra intervista esclusiva al cineasta francese, oggi a Roma per presentare il suo ultimo film Roubaix une lumière nell’ambito della rassegna Rendez-vous del cinema francese. Da SSMagazine n. 31

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Torna oggi a Roma Arnaud Desplechin. Il cineasta francese sarà questa sera all’Arena Nuovo Sacher per presenziare alla prima italiana del suo ultimo lungometraggio, Roubaix une lumière, presentato allo scorso Festival di Cannes, e ora protagonista – assieme ad altri cinque titoli – della rassegna Rendez-Vous del cinema francese, che si terrà nello spazio estivo della storica sala di Nanni Moretti, in una versione più snella, dopo lo slittamento dovuto all’emergenza sanitaria. Proprio in segno di amicizia e stima verso la manifestazione curata da Vanessa Tonnini, Desplechin – il cui cinema è stato oggetto di una corposa retrospettiva dei Rendez-Vous nel 2018 – è tornato a Roma per accompagnare il suo polar, nelle sale italiane il prossimo autunno distribuito da No.Mad Entertainment.Per l’occasione, riproponiamo la generosa intervista esclusiva che il regista ci concesse due anni fa, quando stava lavorando alla sceneggiatura di Roubaix, e pubblicata originariamente sull’ultimo numero (il 31) del Sentieri Selvaggi Magazine.

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Torcere il collo a vita. Conversazione con Arnaud Desplechin. Intervista a cura di Fabiana Proietti, Aldo Spiniello, Sergio Sozzo

A incontrarlo, Desplechin sembra molto diverso dai suoi personaggi, tutti, come dicevamo, in qualche modo “fuori dimensione”, oltre la norma. È una persona all’apparenza tranquilla, sicuramente gentile, che si esprime con calma, a bassa voce. Ma le sue parole restituiscono alla perfezione la straordinaria vitalità del suo cinema. Che sembra sempre procedere per accumulo, dalla moltiplicazione inquieta e frenetica delle scene, delle svolte narrative, delle situazioni e dei registri emotivi. I film di Desplechin si muovono lungo una faglia instabile, percorsa da continue scosse telluriche, tutti quei momenti di frattura e di crisi che sebbene siano segni di un perenne stato patologico, pure rientrano con lucida gioia nel flusso della vita, che rimodella continuamente gli equilibri delle relazioni, dei pensieri e dei sentimenti. Come cantava qualcuno, qui il punto è “ce mal qui nous fait du bien”. Desplechin s‘immerge nel caos, ma i suoi i film sanno sempre ricomporre i conflitti e trovare la cura.
Di questo abbiamo parlato, quando lo abbiamo incontrato a inizio aprile, in occasione della retrospettiva che gli è stata dedicata dai Rendez-vous, il festival del nuovo cinema francese. Dell‘amore del e per il cinema, a cominciare da Truffaut, ma anche di psicanalisi, antropologia, letteratura, di televisione, delle mille forme esplose dell‘immagine contemporanea.

In Comment je me suis disputé c’è un lungo monologo di Paul Dédalus che sembra quasi una dichiarazione programmatica del tuo cinema. Dédalus ricorda come da bambino, per scrivere un’avventura letteraria, sentisse di dover partire dall’autobiografia, per “torcere il collo alla vera vita”. Quando questo impulso è diventato una regola per te?
Ho l’impressione che nei miei film ci siano sempre delle scene ambientate a Roubaix, che è la città da cui sono originario, nonché la più povera di Francia. Ho l’impressione che sia una sorta di travestimento autobiografico e che il mio scopo sia ogni volta creare una finzione, che sarà però più credibile se la baso su cose intime o, piuttosto, imbarazzanti.
Roubaix compariva già in un film di Sacha Guitry del 1938, o giù di lì, in cui c’è un segretario molto irascibile a cui il direttore dice “Se lei continua così la mando a Roubaix!”. Quindi è una città con una pessima reputazione sin dagli anni Trenta, la città in cui nessuno vuole andare, un po’ come Duluth negli Stati Uniti, perciò sentivo il bisogno di trasformarla in una specie di piccolo paradiso e basare il mio lavoro su dei tratti autobiografici ma sempre col fine di creare della finzione.
È il tentativo di Paul Dédalus in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) quello di trasformare la sua vita in racconto, ma non ci riesce. È il film che lo fa al posto suo. È vero che il cinema che cerco di fare è innamorato della finzione, è innamorato dell’idea del racconto, edè per questo che cerco di dargli questa connotazione autobiografica di cui mi parlavi…

A proposito di Roubaix, la città come spazio reale sembra smaterializzarsi per farsi deposito di memoria, luogo dei ricordi, dei sentimenti…
Varia di film in film. Per esempio, in Les fantômes d’Ismaël (I fantasmi di Ismael) il viaggio in treno ha un carattere fantasmatico, in Conte de Noël (Racconto di Natale) c’è una Roubaix incantata, sotto la neve; talvolta è una Roubaix più brutale, in Ismaël è uno spazio mentale, perché lui si rinchiude in soffitta a tentare di ricomporre delle cose e tutti i paesaggi che vediamo durante il tragitto in treno sono al tempo stesso realistici e onirici.
È curioso che mi abbiate chiesto questa cosa perché il mio prossimo film, che ho terminato di scrivere qualche mese fa, sarà tutto ambientato a Roubaix e questa volta sarà una Roubaix molto vera, che racconta la condizione della gente diseredata che vive lì che, come ho detto, è una città davvero povera… Mi sento un po’ come Guy Maddin, che ha girato tutti i suoi film a Winnipeg perché è la sua città natale o al racconto di Newark da parte di Philip Roth. Ci vedo una sorta di umiltà che apprezzo…

E in questo senso il cinema interviene sempre a correggere la realtà…
Ecco, a proposito di correggere la realtà, prima citavo la neve di Conte de Noël e quella era una neve finta, più bella di quella vera perché è una neve cinematografica e quindi correggo con gli artifici del cinema il paesaggio. Lo stesso avviene con i dettagli: ad esempio in Ismaël, che è un film molto mentale, c’è però la sequenza in cui l’amico, preoccupato dalla sua salute, cerca di entrare in casa e per farlo deve rompere il vetro di una finestra. In quel momento passano un uomo e una donna, che lo aiutano, lei gli tiene il cappotto, gli dicono di fare attenzione ai vetri… Ecco, a volte si lavora di astrazione, altre volte si aggiunge un surplus di realtà.

Ne I re e la regina c’è una frase che Ismaël-Amalric dice al suo medico, Catherine Deneuve: “Gli uomini vivono per morire e le donne vivono e basta”. Un’eco di questa battuta sembra trovarsi nella scena di Trois souvenirs de ma jeunesse (I miei giorni più belli) in cui Paul e Esther sono nel museo e lui è totalmente concentrato su un quadro, vive quel momento, mentre lei, al contrario, volta le spalle alla tela, è già altrove…
Sì, lei è altrove… È come se galleggiasse in una bolla. Questa era una sfida, ciò che mi appassionava di più, ed era anche uno dei tratti in comune con Comment je me suis disputé, dove c’erano un giovane uomo molto bravo con le parole e una ragazza che non sa parlare. Sono al museo, davanti al quadro, e lei dice “Se ami il quadro e ami me, riesci a compararci?”. Gli pone una sfida, per vedere fino a che punto lui riesca ad arrivare. Amo molto questa ragazza, che all’inizio è solo una forza vitale, non ha la capacità di parlare, non è un’intellettuale, non ama leggere… Si vede da tanti piccoli dettagli, per esempio quando Paul la riaccompagna a casa prima di ripartire, Esther gli chiede di chiamarla ma lui è povero e a Parigi non ha telefono, così le chiede piuttosto di scriversi e per un istante lei fa una smorfia, ha un momento di esitazione perché non è una ragazza che ama scrivere o che sa scrivere.
Ma a poco a poco la vita le insegna a farlo. E presto le lettere vanno a riempire tutta la sua esistenza e lei diventa la romanziera di se stessa. Mostrare la conquista della parola di questo personaggio femminile è stato un qualcosa che mi ha commosso molto.

E infatti è poi lei che si rivolge frontalmente alla macchina da presa, non è mai Paul…In relazione a questo aspetto, c’è una tradizione nel cinema francese che oscilla tra due poli, quella di un amore agito, che appartiene a Truffaut, e un amore della parola, che fa capo a Rohmer.  Il tuo cinema sembra porsi a metà strada…
È vero che mi diverte avere dei personaggi logorroici, specialmente tra le donne. Quello che cerco di raggiungere è il momento in cui tutto si infiamma e l’amore diventa carnale, in cui la parola si trasforma in atto, in un bacio, e d’un tratto il dialogo si fonde in gesto. In Trois souvenirs c’è un dettaglio di questo spirito la prima volta che Paul e Esther stanno insieme. Lì capiamo che Paul non è abituato alla compagnia femminile mentre Esther ha molta confidenza con i ragazzi. Così comincia a spogliarsi ma c’è troppa luce e allora è lei che ne spegne una, per proteggere la sua nudità. È un dettaglio che mi tocca molto e mi fa venire in mente un aneddoto raccontatomi dal montatore de Le due inglesi e il continente, che è un film molto crudo sull’amore. Nel finale Jean Pierre Léaud per la prima volta fa l’amore con la sorella più puritana, ma Truffaut non ha mai visto la scena perché era talmente pudico che ogni volta che si trovava in sala di montaggio e si volto sulla moviola. Questo mix di estremo pudore ed estrema spudoratezza è qualcosa che mi ha sempre commosso molto in Truffaut.

Però poi come spettatore era ossessionato dall’idea dell’amore fisico, ricordo con quanto trasporto scrivesse di Les amants di Louis Malle come della “prima vera notte d’amore al cinema”…
Sì. Questo si ritrova molto anche ne La mia droga si chiama Julie, che era un film molto importante per lui, voleva che si sapesse se i due protagonisti avessero una buona intesa sessuale o meno. Si cerca sempre di capire che tipo d’amore è: per esempio, nel mio caso, su Les fantômes sapevo che si trattava di un amore abbastanza passionale e vertiginoso, ma non sapevo come fare a dargli forma, perché Ismaël fa l’amore con tre donne diverse, Marion (Cotillard, ndr), Charlotte (Gainsbourg, ndr) e Alba (Rohrwacher, ndr).
Mi dicevo: “È necessario che non sia la stessa, cosa”, perché non si ama mai qualcuno nello stesso modo. E allora c’è un amore estremamente infantile, adolescente, perduto, semplice con Carlotta; e poi un c’è amore che è come un rituale, molto serio, ma che li vede anche ridere insieme tra le lenzuola, un amore molto puro, che è quello con Sylvia; e, infine, un amore fisico e amicale con Alba. Vediamo un’amicizia sessuale tra i due e il punto sta nel trovare il colore esatto del rapporto fisico che può esserci tra un uomo e una donna.

Tornando invece alla pittura, ne Les Fantômes di Ismaël c’è quella del Beato Angelico e quella di van Eyck, da un lato la prospettiva unica del Rinascimentale italiano, dall’altro quella fiamminga. Sembra che tu propenda per la seconda, quindi per lo stare dentro il quadro…
Sì, nella pittura fiamminga prevale una pluralità di prospettive rispetto a quella italiana, in cui ce n’è una sola. Quella scena mi diverte anche perché nel film c’è un film-nel-film, ci sono quello di Ivan e quello di Ismaël, ma le due prospettive non corrispondono. Sono due film che si guardano ma che non arrivano mai a congiungersi.
Mi piaceva mostrare quanto lui prendesse seriamente il suo lavoro, è un regista capriccioso, arrogante, molto distruttivo ma quando lo vediamo nell’esercizio del suo mestiere, o quando lo spiega, è sempre molto serio. Ha questo sogno assurdo per cui comprendendo le leggi della pittura si potrebbe persino comprendere la nascita dell’antisemitismo. E il produttore gli dice “Adesso pretendi troppo dal cinema. Il cinema può essere tante cose ma non spingersi fino a questo punto!”. E allo stesso tempo, alle loro spalle, campeggia anche la scena di un’Annunciazione, con il ritratto dei Coniugi Arnolfini, in cui la sposa poggia la mano sul ventre rotondo, in un modo che sembra anticipare il miracolo della gravidanza di Sylvia a fine film. E poi l’idea di tendere tutti quei fili è un riferimento divertito a Spider di David Cronenberg, film che adoro.

Quest’idea dei film che si guardano ma non si corrispondono pare incarnarsi nei labirinti, nei dedali che il tuo cinema costruisce, ma che non sono mai perfetti. È un cinema cubista!
Come nelle prospettive, sì! Nel film è Ismaël che si fa portavoce della teoria del film. Quando parla di Pollock, dice che non fa pittura astratta ma delle immagini compresse. Ed è un po’ l’impressione che avevo quando ho iniziato a girare, come se avessi il desiderio di prendere cinque film e comprimerli in uno solo.

Un’altra cosa che torna sempre è la malattia, il fatto che nei tuoi film tutti i sentimenti passino sempre attraverso il corpo, come in Jimmy P. o Racconto di Natale con il cinema che ne è la cura, una forma di terapia…

Penso sia curioso che cinema e psicanalisi abbiano la stessa data di nascita, il 1895, e che come la psicanalisi vorrà sempre essere una scienza e non lo sarà mai, il cinema aspiri sempre ad essere arte senza esserlo completamente.
Trovo ci sia una relazione fraterna tra cinema e psicanalisi. Amo che il film sia un percorso. Penso ad esempio a Comment je me suis disputé. All’inizio il personaggio è addormentato, è nel suo ufficio, poi un’ombra lo sveglia ed entra in un ufficio fiabesco, che è di fronte, ma non è possibile… E allora ci si chiede: sta dormendo o è sveglio? È come in Cartesio: quella che vivo è la vera vita o no? E quando alla fine del film gioca a Mikado con Sylvia, Paul dice “Comunque ho vissuto. Non ne ho certezza ma ho vissuto”. E amo che il film dia al personaggio delle risposte alle domande che si è posto. Talvolta, tornando all’aspetto della malattia, è il corpo a dare delle risposte. Quando Esther, che soffre di amenorrea, ha di nuovo il ciclo mestruale e ritorna funzionale, ritorna in qualche modo alla vita, allora capisce di essere pronta ad allontanarsi da Paul. E anche se è vero che i miei personaggi parlano molto, amo che in certi casi il sentimento passi per la brutalità del corpo.

Come nella scena di Esther Kahn
Sì, esatto, quando Esther mastica i frammenti di vetro…

I tuoi film sono sempre fluviali, proprio per questa pluralità di visioni, di prospettive e punti di vista. Ma rispetto agli esordi, c’è adesso più ordine nel modo di concepire queste grandi narrazioni, attraverso meccanismi come la divisione in capitoli o la mise en abîme del film-nel-film. All’inizio, invece, fondevi tutto insieme in con- tinuità. È un cambiamento legato ad esigenze produttive o a qualcosa nel tuo modo di concepire la messa in scena?
Lavoro sempre con la stessa produzione, ormai c’è una relazione da coppia, per cui il cambiamento non è legato a questo. Ricordo che era una questione che si era posta già ai tempi di Comment je me suis disputé, che era un film molto, molto lungo. Il produttore e il distributore erano terrorizzati da questo “mostro” e i critici mi dicevano che il film durava troppo. Io rispondevo: “Sì, è lungo ma va veloce”.
Il film è lungo ma ogni scena scivola via rapidamente. E avevo come un’ossessione, mi dicevo che quando sarei stato più abile nel girare avrei dovuto essere ancora più veloce. Era un qualcosa che tenevo bene a mente durante le riprese di Rois et Reine (I re e la regina), che non è certo un film breve, ma in cui tutti gli eventi drammatici che capitano a Nora, ossia la parte melodrammatica del film, prendono solo un’ora e dieci e sono sicuro che qualunque altro regista ne avrebbe impiegate due; così come racconto le peripezie di Ismaël in un’altra ora e dieci mentre chiunque altro ci avrebbe messo tre ore… E i due film si tengono la mano per regalare i sette minuti finali al bambino.
Io mi dicevo che dovevo essere sempre più veloce nello script, per comprimere tutto insieme. In Trois souvenirs de ma jeunesse sono molto felice di essere riuscito a raccontare questi tre episodi con un tempo così conciso…E sono tre tempi molto diversi, con la giovinezza che corre veloce e l’amore che, beh… ha bisogno di una vita intera…

A proposito della scena finale di Rois et Reine, è un momento molto intimo, in cui Amalric fa un lungo discorso al piccolo Elias e il modo in cui è girata la sequenza, con cambi di location, alternanza di campi lontani e ravvicinati, dà l’idea di una regia molto solida ma anche di una grande naturalezza…

Non abbiamo fatto un numero eccessivo di ciak. Ricordo che avevamo girato tutte le scene con Nora a Grenoble e quando siamo arrivati a Parigi l’addetto alle location non aveva lavorato e quindi non avevamo un set, non sapevamo dove girare quella scena. Una scena che, tra l’altro, aveva un monologo mostruoso, con un testo lungo così. Allora in un week end con l’assistente alla regia abbiamo girato per la città cercando l’ambiente giusto, facendo una lista di luoghi dove un padre divorziato può andare con suo figlio. Lo porta al parco, al museo… Mentre stavamo mappando posti del genere siamo passati in macchina davanti al Musée de l’Homme dove c’era lo striscione “Museo in sciopero”. E allora, siccome ci serviva l’autorizzazione per il lunedì, mi sono detto “Beh, se sono in sciopero sono degli amici, ci accorderanno subito il permesso!”. Ed era un museo che avevo visitato da piccolo con i miei genitori. Oggi non esiste più, è stato rimpiazzato dal Musée du Quai Branly.
Dato che il testo era davvero molto lungo lo avevo diviso in piccoli capitoli, assegnando ogni volta a ogni location un significato differente così che Valentin, il bambino che interpretava Elias, potesse capire meglio ciò che gli veniva detto, perché non fosse solo un fiume di parole senza senso per lui ma dei piccoli discorsi: il momento in cui vanno a fumare la sigaretta fuori, quello in cui sono nella galleria preistorica, il momento in cui prendono il gelato, il momento in cui sono ai piedi della statua e via dicendo. Mathieu sapeva il testo alla perfezione e quindi facevamo solo un ciak, o due, al massimo tre ogni volta.

In Jimmy P. Amalric aveva raccontato che facevate un’unica ripresa per scena. E questo fa pensare alla velocità, che era propria anche delle scene di Truffaut. La velocità della scena è legata alla velocità con la quale giri?
Dipende. Per esempio dopo Jimmy P. in Trois souvenirs Mathieu aveva solo due monologhi, ma molto lunghi: la lettera che scrive a Kovalki e la sfuriata che gli fa nel bar. E lui era molto preoccupato dal dover ricordare tutto, quindi era andato dall’assistente a chiedergli quanti ciak facessi per ogni inquadratura ma non c’è un numero fisso: a volte uno, a volte dieci o quindici.
Dipende molto da cosa si gira. Per esempio in Jimmy P. ho l’impressione che la scintilla fosse l’incontro tra un attore eu- ropeo e un attore americano, un attore che non è caucasico, come Benicio Del Toro, e un attore che cerca di diventare americano, come Amalric quando ha fatto i James Bond e cose simili e dovevo filmare questa scintilla dell’incontro.
Quindi ho deciso di fare un solo ciak per inquadratura, come John Ford, e una volta che avevamo catturato la scintilla potevamo passare oltre. Ma altre volte, per arrivare a raccontare più velocemente una scena, sei obbligato a ripeterla più volte per far sì che sia più fluida. A volte servono molte ripetizioni per poter condensare il tempo.

In Jimmy P. girare in una sola ripresa è anche un modo per raccontare una storia di fiducia…
Sì, è molto prossimo al plot, eravamo solo in tre e ognuno di noi doveva avere fiducia negli altri. Con questa storia dovevamo restituire allo spettatore qualcosa che è molto umano, molto onesto e quindi in questo caso, per ottenere questa onestà ho optato per un sistema alla Philippe Garrel di un solo ciak per inquadratura.

Tu non sembri attaccato al contemporaneo. Il tuo cinema per temi e atmosfere si avvicina moltissimo a quello di Olivier Assayas. Suonate le stesse note ma con un tocco estremamente diverso. Ad esempio il tema dei fantasmi: quelli di Ismaël vengono dal passato, dal rimosso; quelli di Personal Shopper appartengono al mondo virtuale, agli oggetti della tecnologia…
Nutro una grande amicizia per Olivier e un’ammirazione per quel film. Sono molto fiero di aver fatto parte della giuria che gli ha dato il premio per la Miglior Regia a Cannes. Io non ho fiducia nella tecnologia, i miei personaggi maschili non hanno mai il telefono, non è bene, può esplodere e uccidere (c’è il riferimento a una scena de Les fantômes d’Ismaël, ndr). Io e Olivier abbiamo una forma di cinefilia molto diversa. Mi ricordo di una frase di Serge Daney, il critico cinematografico, che diceva come la cinefilia ci protegga dalla vita e ricordo che lo disse in un’intervista radiofonica parlando di come la cinefilia fosse qualcosa che si definisce quando si è molto giovani, già a otto o dieci anni.
Parlava della sua cinefilia ma anche della sua omosessualità e disse “Io ho rifiutato la società. Andare al cinema è rifiutare la società per accettare il mondo”. Ecco, io ho l’impressione che Olivier accetti il mondo ma anche la società, con questa sua urgenza del contemporaneo, mentre io ho bisogno di liberarmi della società per provare a raccontare il mondo così come lo vedo.
Vi racconto questo aneddoto e mi scuso per la lunghezza ma la vostra domanda mi ci porta… Mentre stavo scrivendo la sceneggiatura de Les fantômes d’Ismaël, al momento degli attacchi terroristici a Parigi, mi trovavo in Grecia per una retrospettiva. E quando sono rientrato non riuscivo più a scrivere, ero bloccato, perché mi rendevo conto di essere diventato vulnerabile e volevo che i miei personaggi condividessero questa nuova vulnerabilità. Per tre settimane ho smesso di scrivere, sentivo che doveva esserci un richiamo al contemporaneo e poi è arrivato sotto forma di piccoli dettagli: i poliziotti per strada quando Ismaël passeggia con Sylvia la prima volta; la donna con il velo a Roubaix ma soprattutto la scena dell’aereo in cui Bloom, questo uomo anziano, che ha fatto la Resistenza, non riconosce più i codici di comportamento. E quando nella cabina dell’aereo si apre la giacca dicendo “Non ho mica bombe” e tutti si mettono al riparo la situazione vira sul burlesco ma era l’unico modo possibile, per me, di integrare nel corpo del film questa nuova vulnerabilità che tutti stiamo sperimentando. Quindi, credo che a modo mio tento di accogliere il mondo anche se continuo ad avere un problema con la società…

Il cinema come forma di protezione dalla vita torna anche in Trois souvenirs, nel monologo finale di Amalric, che rimprovera all’ex amico Kovalki di non aver appreso i codici morali dei vecchi film che vedevano alla tv…È sempre il cinema che detta le regole del gioco?
Sono d’accordo con il filosofo del cinema americano Stanley Cavell quando dice che i film insegnano a vivere e questo si ricollega alla vostra osservazione del cinema come terapia, dove i personaggi alla fine guariscono. Io credo che si guardino i film per vivere meglio…

E infatti Amalric ci diceva che nei tuoi film c’è sempre una forma di armonia…
Sapete, per molto tempo, negli anni del liceo, ho creduto che l’happy end fosse un male. Quest’idea che il film arrivasse all’armonia nell’ultima scena non mi piaceva perché era americana, borghese, era il Re che forza Molière a cambiare il finale. La vita vera non è così e poi qualcosa mi ha convinto che il miglior finale del cinema è quello di A qualcuno piace caldo, con Jack Lemmon che dice al vecchio miliardario “Ho vissuto tre anni con un sassofonista, non potrò avere bambini…Ma non capisci Osgood, io sono un uomo! E beh nessuno è perfetto!”. E questo significa che la vita accade sempre. Non si può impedire alla vita di accadere, non si può impedire alla giovinezza di cedere il passo alla vecchiaia e credo che lo spettacolo mostri questo, qualunque tipo di spettacolo, che sia teatro o cinema.
Mi ricordo di una frase di Truffaut che trovo molto divertente e che mi fa pensare ad alcuni film di Garrel. Diceva “Detesto i film in cui l’eroe maschile si uccide in modo sordido e appena si riaccendono le luci il regista si alza felice perché ha guadagnato un sacco di soldi con le vendite internazionali”. Trovava ingiusto che ci fosse questo scarto tra la finzione e la vita reale ed è questa uguaglianza tra vita e finzione che ricerco quando mi chiedevi del “torcere il collo alla vita reale”.

Bellissimo, anche se per noi il finale migliore della storia del cinema è quello di Sentieri Selvaggi… che poi è un po’ la stessa cosa. Riguardo ai fantasmi, sono sempre più convinto che esistano solo perché noi vogliamo che esistano, hanno senso solo se li vediamo e li vediamo solo perché vogliamo vederli. E allora, forse, i veri fantasmi siamo noi…
Potrei anche usare un paragone e dire che i fantasmi sono i sensi di colpa, siamo noi che portiamo dentro i nostri propri fantasmi, sono gli incubi che attanagliano Ismaël o Ivan. C’è la scena divertente in cui Mathieu va dal medico a Roubaix e, pieno di elettrodi attaccati alla testa, gli chiede di rimuovergli l’ippotalamo e il medico gli spiega che no, non è possibile. Ed è vero che tutti questi incubi che non arriva a comprendere sono le occasioni mancate nella vita: sono gli amori finiti male, i lutti non superati, le amicizie perse. Tutto questo torna ad assalirlo e sono i fantasmi di cui alla fine del film riesce a sbarazzarsi. Non completamente, ma un po’.

Però non accade sempre. Nora o Ismaël superano i loro fantasmi ma Paul in Trois souvenirs ne resta prigioniero…
Amo molto la rabbia che Paul prova ancora alla fine del film. È una cosa di cui mi sono reso conto a posteriori, quando l’ho visto completo, ma non avevo dato indicazioni in proposito ai due attori. Eppure vedendo il Paul Dédalus interpretato da Quentin Dolmaire si ha l’impressione di essere di fronte a un vecchio signore, sempre molto calmo, misurato, ragionevole… Mentre a quarant’anni diventa infine l’adolescente che non si era autorizzato ad essere ed è un paradosso splendidamente reso da Mathieu.

In relazione a questo conflitto tra adolescenza e maturità, in una tua conversazione con Wes Anderson, lui ti raccontava di aver letto Proust al college, mentre tu ammettevi di esserti sempre rifiutato, in quanto scelta obbligata per un giovane francese di estrazione borghese. Eppure tutti hanno sempre ravvisato nel tuo cinema una forte componente proustiana. Alla fine ti sei riconciliato con questo autore?
Quando ho superato cinquant’anni mi sono detto che era arrivato il momento di leggere la Recherche. L’ho iniziato, sono arrivato al terzo volume ed è effettivamente geniale. Ma quando mi sono trasferito a Parigi mi ero proibito di leggere Proust così come tutti i grandi autori della tradizione perché ero interessato alle arti popolari. Ma, poiché ero curioso, lo avevo in un certo senso letto attraverso le analisi di Deleuze e di altri. E dopo era diventato una specie di voto, di superstizione, che solo da poco ho superato…

Invece, come nasce l’interesse per l’antropologia, che assieme alla psicanalisi e alla malattia è una sorta di ossessione ritornante nel tuo cinema?
Questa è un po’ un’eredità francese, da Lévi-Strauss a Marcel Mauss, ma il cinema ha una forte componente antropologica nello studio dei comportamenti umani. Come Conte de Noël che nel raccontare una struttura familiare fa dell’antropologia.
Trovo ci sia una relazione fraterna tra le due discipline e nell’antropologia amo questa grande curiosità per l’altro, e se è vero che non ho grande appetito per i segni della modernità nel mondo, ho però un forte interesse per gli altri ed è questo che mi spinge nel mio mestiere.
In Trois souvenirs, quando Paul parte per le sue ricerche in Tagiskistan, domanda tramite il traduttore a un vecchio paesano se fosse innamorato di sua moglie. E l’uomo scoppia a ridere perché la loro esperienza di matrimonio non ha nulla a che vedere con l’idea dell’amore. E credo che sia proprio questa curiosità verso gli altri, l’idea di abbracciare modi di vivere differenti, a riempire il mio cinema.

Cinema e antropologia, cinema e psicanalisi: allora il cinema è una pratica del Novecento, è fuori moda?
C’è una traccia molto forte del Ventesimo secolo nel cinema e ora siamo nel Ventunesimo e ci sono sicuramente altre forme d’arte. Non credo che la serialità appartenga al Ventunesimo secolo, viene dal Novecento e semmai ora è cambiato il modo di fruizione, stiamo andando incontro alla fine prevedibile della televisione, presto non ci saranno che computer. Del resto anche la pittura è un’arte antica ma che continua comunque a reinventarsi e a insegnarci molto. Credo che il cinema come traccia del secolo scorso sia molto prezioso.

E come ti poni rispetto alle posizioni del Festival di Cannes, al suo rifiuto di Netflix, che sembra circoscrivere il cinema quasi a tempio del passato?

Comprendo e rispetto la posizione di Almódovar, quando dice che Netflix non è cinema. Ma non arrivo a condividerlo perché per me Netflix è cinema. Se dovessi indicare uno dei migliori film del Ventunesimo secolo sarebbe sicuramente The Wire. È un film straordinario, assordante, che ci dice tantissimo dell’America, eppure è una serie televisiva, che per me è cinema. Per cui non riesco a trovare un’opposizione tra cinema e serialità, oggi il film trova altre forme d’esistenza, si fa con telecamere e schermi più piccoli, e va bene così, non è una cosa che mi spaventa. Vedere un film da soli o insieme ad altri è un tipo di esperienza diverso ma non cambia la sostanza. Per me Netflix fa cinema e tentare di negarlo è solo una perdita di tempo.

Del resto tu hai fatto della serialità ben prima, hai creato col tuo cinema delle vere saghe…
Ahahaha, è vero, potremmo dire così…Comunque io guardo serie televisive, non sono un vero patito ma le guardo. Non sono al livello di Olivier (Assayas), ma sono sempre più curioso verso le nuove forme espressive. Dentro le serie ci sono moltissime cose cinematografiche e poi penso a due grandi cineasti del Ventesimo secolo come Claude Lanzmann e Frederick Wiseman e Wiseman senza la televisione non esisterebbe: i suoi lavori sono stati concepiti, prodotti dalla Tv. Ha costruito una delle più imponenti opere del cinema americano e senza la televisione non ci sarebbe nulla di tutto ciò.

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