Spaceman, di Johan Renck

Dal romanzo di Jaroslav Kalfar, il doloroso viaggio di un uomo nel proprio universo interiore. Adam Sandler aggiunge un altro essenziale tassello al suo percorso. BERLINALE 74. Berlinale Special

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Che non ha tempo né pietà

Sembra strano parlare di un film di Adam Sandler a partire dalla trama. Perché gran parte delle volte le storie finiscono per essere poco più di un pretesto, un’aggiunta a una galleria di personaggi e situazioni che sembrano momenti di un’unica, gigantesca performance. E non conta neanche il fatto che Spaceman appartenga al lato serio della filmografia sandleriana. Come se ci fosse differenza. No, il punto è che la storia di questo film appare esemplare, per certi versi definitivamente illuminante.

Sono passati già sei mesi da quando è iniziato il viaggio in solitaria di Jakub Procházka, il primo astronauta della Repubblica Ceca inviato nello spazio, fino ai limiti del sistema solare, per studiare una strana nebulosa violacea. Nell’inseguire le sue ambizioni, una gloria da eroe nazionale, Jakub non ha esitato un istante a lasciar da sola la moglie Lenka, proprio agli inizi di una seconda gravidanza, dopo un tentativo già fallito in passato. È la prova definitiva di una distanza siderale già segnata da incomprensioni, chiusure, litigi, silenzi. Lenka è decisa a rompere definitivamente il rapporto. E anche se il suo messaggio di addio viene censurato dai responsabili della missione spaziale, Jakub avverte comunque che il suo matrimonio sta andando in frantumi. Dopo mesi di isolamento forzato, già preda dell’insonnia e dell’inquietudine, rischia il cedimento psicofisico definitivo. Finché non compare una strana creatura, un ragno gigantesco, che lo obbliga a fare i conti con sé stesso.

Dopo aver diretto gli episodi di Chernobyl, la serie HBO, Johan Renck si rivolge al fortunato romanzo Spaceman of Bohemia di Jaroslav Kalfar (pubblicato in Italia con il titolo Il cosmonauta). Ma, affidandosi alla sceneggiatura di Colby Day, rinuncia completamente all’approccio ironico dello scrittore ceco, che riattraversa da una prospettiva fantastica la storia recente del suo paese. Per concentrarsi sul dolorosissimo viaggio di un uomo nelle nebulose del proprio universo interiore. Spaceman è una storia di solitudini e di disconnessioni. Dove è il silenzio “il punto”, come dice a Lenka la responsabile della missione spaziale, intrepretata da Isabella Rossellini. È l’incapacità di aprirsi all’altro, di riconoscerlo, di comprenderne i sentimenti, le aspettative, le richieste. “Lei ti è sempre stata davanti e tu non l’hai vista”, dice a un certo punto Hanuš a Jakub. E sono parole che risuonano come una sentenza terribile. Ma sono semplicemente il riflesso dell’incapacità del protagonista di vedere sé stesso, di riconoscere il suo animo più profondo, quello in cui si addensano le cicatrici dei ricordi e si agitano le paure. D’altro canto, il silenzio occupa lo spazio e il tempo della solitudine. Che è la condizione necessaria davanti a cui ti ritrovi ogni volta che vai in crisi, in tutti quei momenti in cui si apre un passaggio.

Verrebbe da chiedersi a questo punto chi sia davvero Hanuš, questo gigantesco ragno alieno che parla con la voce di Paul Dano. “Hanuš è reale”, ci tiene a sottolineare Renck, per dissuaderne qualsiasi interpretazione in chiave di proiezione interiore di Jakub. Ma anche ogni tentazione a far appello ad allucinazioni metamorfiche kafkiane (richiamo probabilmente più che consapevole nel romanzo di Kalfar). Ciò non toglie che questo personaggio “reale” assume una funzione simbolica fondamentale. È a tutti gli effetti una chiara figura archetipica che spinge il protagonista a confrontarsi con sé stesso, anche contro le sue evidenti chiusure e reticenze. Da essere senza età, che vive sin dall’inizio dei tempi, Hanuš custodisce e svela il segreto dell’universo, o meglio tutto quanto si può comprendere di quel segreto, prima di arrestarsi sulla soglia dell’indicibile e precipitare nel nulla (il nulla è solo il limite del nostro pensiero, direbbe qualche cabalista). L’universo è ciò che dovrebbe essere. Così è sempre stato e così sarà sempre. E non c’è bisogno di giustificazioni o fughe. Ma soprattutto, Hanuš è il contatto essenziale, l’altro da abbracciare per riscoprire il flusso del cuore nella stretta dei corpi.

È questa la lezione profondamente sandleriana di Spaceman. Sì, Johan Renck fa del suo meglio nel costruire un impianto visivo originale, in cui i ricordi diventano immagini anamorfiche, distorsioni improvvise dell’anima. Riesce a restituire un mondo in cui si smarriscono le coordinate temporali e spaziali. In che anni siamo? È davvero credibile l’ambientazione ceca, questo clima da Est Europa? Come se fossimo davanti a un’ambiguità, a un equivoco da film di Lubitsch. Proiettato sulla scia di tanti altri viaggi siderali interiori, da Solaris Ad Astra… Eppure il cuore enorme di Spaceman è, senza dubbio, Adam Sandler. Che conferma di essere il più grande attore del mondo, semmai ce ne fosse bisogno. Risponde all’intensità esemplare di Carey Mulligan con una profondità tutta istintiva, di sottrazione, spalancando un universo intero con una semplice espressione del suo volto stanco. Ma ancor più ribadisce la sua lucidità come autore, capace di creare una linea coerente film dopo film. Non importa se drammatico o becero, se brillante o idiota. Basta prendere un titolo a caso e ritrovi i motivi fondamentali. L’importanza e il mistero della figura paterna, la difficoltà a gestire la propria emotività, la necessità di lasciarsi andare, la scoperta del sentimento, il ritorno alla vita e al calore di un contatto.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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