Ad Astra, di James Gray

Il settimo film del regista americano, interpretato da Brad Pitt, è un magnifico monologo interiore. Quasi una preghiera liberatoria, trascendente e umanista.

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Il settimo film del regista americano, interpretato da Brad Pitt, è un magnifico monologo interiore. Ad Astra è quasi una preghiera liberatoria, trascendente e umanista.

Esplorare nuovi mondi, oltre l’infinito, oltre l’impossibile. Fino alle stelle. Dal basso verso l’alto. Ad Astra. Diciamolo subito: mai il cinema di James Gray era stato così diretto, verticale, trascendente e umanista. Il viaggio è inarrestabile, verso l’angolo più buio del sistema solare e dell’essere umano. Una “zona” oscura identificata ancora una volta dall’eredità dei padri, forse dalle loro colpe. Roy McBride (Brad Pitt) è un astronauta affidabile, razionale, anche in situazioni critiche non supera mai gli 80 battiti al minuto. Sembra una macchina perfetta. È il figlio di Clifford McBride (Tommy Lee Jones), un pioniere dei viaggi nello spazio che una ventina di anni prima è scomparso con il suo equipaggio alle soglie del pianeta Nettuno. Roy lo ha sempre creduto morto, ma forse non è così. Potrebbe esserci lui dietro le scariche di energia che stanno creando blackout e distruzioni sulla Terra. È quanto credono i superiori di Roy, quando gli chiedono di provare a mettersi in contatto con il padre. Roy accetta. È così inizia a immergersi nel suo passato e nelle sue paure, e ad affrontare il suo cuore di tenebra.

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Il dato di partenza ancora una volta è la ricerca di una civiltà (una forma di vita intelligente oltre a quella umana) perduta, che forse non esiste nemmeno ma che ha ossessionato per tutta la vita il Padre. Il Figlio non ha scelta, come sempre avviene nei personaggi del cinema di Gray. È condannato a raccogliere l’eredità e a inseguire un’immagine paterna fantasmatica, mentale, inevitabilmente plasmata nell’oscurità di un Mito con cui confrontarsi a livello emotivo, intimo, ma anche cinematografico. Perché come nelle opere precedenti del regista, Ad Astra raccoglie l’eredità dei grandi maestri, con escrescenze di 2001: Odissea nella spazio – i rabbiosi primati killer di una sequenza horror spiazzante e violenta – e una riscrittura, quasi letterale, di Apocalypse Now. Un viaggio nello spazio che sembra un unico piano sequenza mentale con sfondi artificiali che cambiano, e poi pianeti, suoni e riflessi cromatici che grazie al talento del direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema, capace qui di evolvere le intuizioni visive già sperimentate in Interstellar, reinventano l’iconografia del cinema di fantascienza come negli ultimi vent’anni era riuscito solo al Soderbergh di Solaris.

Ma come sempre in Gray l’immaginario è solo il punto di partenza per andare oltre e affondare nel “suo” cinema. E così se il padre ha avuto l’ardire e il coraggio di scoprire i mondi e fotografarli, spetta ai figli scalfirne le superfici, andare in profondità alla ricerca della luce e del buio. Il  “suo” cinema è tutto lì, tra la tradizione e la confessione dolente che trasforma la materia in una forma moderna.

Ad Astra è magnificamente sospeso tra movimento e staticità. Tra lo spirito d’avventura e l’inesorabile circolarità delle nostre ossessioni. È l’ossessione che ci fa viaggiare e non viceversa. Come nella magnifica scena conclusiva di Civiltà Perduta, del quale è una sorta di continuazione fantascientifica, in cui la moglie dell’esploratore finiva immersa nella giungla, pur rimanendo a casa, Brad Pitt fluttua nello spazio profondo, parlando a se stesso e restando, in qualche modo, “immobile”. E la voce fuori campo, per la prima volta usata in modo insistente da James Gray, serve proprio a creare un doppio binario di percezione e sensazione. Se il corpo di Roy attraversa la galassia lungo le diverse tappe del viaggio (la Luna, Marte, Nettuno), la sua voce resta sempre lì, in un flusso perpetuo e circolare che analizza l’interiorità di un viaggio che forse il protagonista compie solo nella sua mente, nella sua auto-analisi.

Perché a fronte dei 50 milioni di budget, il più alto a oggi per l’autore di Little Odessa, Ad Astra è forse la più sincera, costosa e visionaria seduta psicanalitica mai realizzata a Hollywood. Un lunghissimo monologo interiore. Quasi una preghiera liberatoria.  Forse il film della svolta per James Gray. Quello in cui è finalmente possibile provare a fare a meno dei padri, abbandonarli alle proprie spalle per ricominciare da capo. Rinunciare alla solitudine del viaggio e ritornare a casa. Bandire l’utopia. Accettare la comunicazione del sentimento. Ripartire dall’essenziale. Un film stratosferico nella sua umiltà.

 

Titolo originale: id.
Regia: James Gray
Interpreti: Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Donald Sutherland, Liv Tyler, Ruth Negga, Lisa Gay Hamilton, Sean Blakemore
Distribuzione: 20th Century Fox
Durata: 124′
Origine: USA, 2019

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.69 (49 voti)
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