Vous ne désirez que moi, di Claire Simon

Presentato a San Sebastian e ai Rendez-vous a Roma, il film di Claire Simon rievoca l’amore tra Marguerite Duras e Yann Andréa come riflessione sul potere creativo della parola e del linguaggio

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Marguerite Duras è quella che Jung chiamerebbe una “esteriorizzazione catalitica” per tutta la durata di Vous ne désirez que moi di Claire Simon, esperimento di finzione a firma della documentarista, basato sulle lunghe chiacchierate tra la giornalista Michèle Manceaux e Yann Andréa, interviste registrate su nastro nell’ottobre 1982, in cui l’allora compagno di Duras cerca di sviscerare la relazione ossessiva che lo lega alla donna, di 38 anni più grande. Yann e Michèle (Swann Arlaud e Emmanuelle Devos) vengono continuamente interrotti da squilli del telefono (“è lei”), davvero come fosse una sincronicità di quelle che fecero litigare Jung e Freud (la celebre libreria che scricchiola…): Marguerite aspetta sotto casa che Yann finisca di registrare la sua “confessione”, ma la sua presenza (mai in scena se non attraverso materiali d’archivio, apparizioni e backstage tra India Song e Agatha) aleggia costantemente nell’aria, la finestra perennemente al centro della costruzione dell’inquadratura sembra quasi un’apertura non tanto per scrutare l’esterno quanto per controllare che Duras sia ancora lontana, col rischio che possa affacciarsi da un momento all’altro.
Claire Simon gioca d’altronde con gli elementi del cinema sin dall’incipit, l’elenco dei personaggi sul cartello iniziale e poi il sonoro che si “attiva” solo quando il mangianastri di Michèle è impostato su REC: se il film corre il rischio di apparire un po’ “accessorio” all’interno della filmografia della cineasta, assume una nuova urgenza se lo si guarda come riflessione sulla capacità creatrice della parola, in un’epoca come la nostra in cui il mezzo della voce va acquisendo sempre più centralità (è il tempo dei podcast, delle note vocali, degli assistenti vocali, degli audible e degli ASMR…).
È d’altronde questa letteralmente l’operazione compiuta dal film, che costruisce il proprio impianto a partire dalle voci impresse sui nastri della giornalista (in qualche maniera non dissimilmente da quanto l’ultimo Desplechin faccia con i dialoghi di Philip Roth), e “ricreare la vita” è il tema su cui continua a tornare il giovane Yann nel suo racconto (come fosse un omaggio al discorso portante dell’opera di Duras al cinema, pensiamo anche solo a Hiroshima mon amour): l’innamoramento per la scrittrice avviene sui libri, tra le pagine dei romanzi, per poi incarnarsi in “Duras, la donna”, e l’intera relazione tra i due è legata a un rapporto di potere che si costituisce proprio attraverso il linguaggio, in cui il ragazzo viene completamente “distrutto e ricreato da zero” dalla figura autoritaria di Marguerite.

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Da questo punto di vista, se quello del nostro narratore al primo grande amore è però un desiderio intellettuale, che deve filtrare la passione e la carnalità sempre attraverso la lente dell’analisi razionale (vista come “una morte vitale”), il vero sguardo desiderante del film è quello del personaggio di Emmanuelle Devos, a cui l’interprete dona l’abituale intensità in questi prolungati primi piani d’ascolto che Simon le riserva: nello sguardo verso la finestra di Michèle risiede la vera ambiguità dell’opera, è sua l’immaginazione che abita le sequenze di ricostruzione così come il desiderio (di cosa? un amore altrettanto travolgente? o si tratta di un’attrazione nei confronti del giovane amico?), un sentimento solo sognato che il film visualizza attraverso i bellissimi disegni erotici di cui è puntellata la sequenza (coerentemente e evocativamente muta) che attraversa la notte che passa tra una seduta e l’altra dell’intervista.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2
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Il voto dei lettori
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