CANNES 59 – "Southland Tales", di Richard Kelly (Concorso)

Uno spreco di talento totale in un film narcisista e visionario-apocalittico che ruba volgarmente da Lynch e unisce diverse arti (musica, fumetto, pop-art), citazioni cinematografiche (Aldrich, Scott) e letterarie (Dick, Eliot) come per nascondere la sua imbarazzante povertà. Un totale flop del regista di "Donnie Darko"

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"È così che è finito il mondo. Non per un'esplosione ma per un lamento". Dalla citazione di Eliot, prende forma la visione dell'apocalisse di Southland Tales, kolossal fantascientifico-thriller di Richard Kelly, ambientato a Los Angeles nel 2008 in cui un attacco nucleare ha fatto piombare gli Stati Uniti in guerra. Per sopperire alla mancanza di carburante, la compagnia US-I Dent costruisce un generatore di energia che funziona sui flussi dell'oceano ma altera la rotazione della terra. La vita degli esseri umani cambia così totalmente, in particolare quella di Boxer Santaros (The Rock), attore di film d'azione colpito d'amnesia, dell'ex-star Krista Now (Sarah Michelle Gellar) e dei fratelli gemelli Roland e Ronald Taverner (Sean William Scott). Il trentunenne cineasta statunitense, dopo la clamorosa riscoperta di Donnie Darko, elabora un'universo futuristico e misterico, elementi presenti nei suoi due cortometraggi The Goodbye Place (1996) e Visceral Matter (1997). Si vede così che l'impianto fantascientifico, con quei colori ipnotici degli interni ad opera della fotografia di Steven B. Poster (già suo collaboratore per Donnie Darko) o quelle visioni dei grattacieli dall'alto, appaiono influenzati dalla letteratura di Philip K. Dick filtrata attraverso Blade Runner. A Kelly non riesce più quel felice equilibrio di follia visionaria presente nel suo film precedente malgrado i riferimenti espliciti come la presenza dell'inizio di Un bacio e una pistola (1955) di Aldrich. Cerca invece quella continuità ininterrotta tra immagine e musica quasi cercando di avere quella progressione sensa sosta nel mostrare la 'fine del mondo' del cinema di Paul Thomas Anderson. Ma stavolta il cineasta statunitense è schiavo del suo stesso narcisismo, disseminando lo spazio di specchi, schermi tv, sguardi in macchina, fughe come per riempire l'inquadratura di corpi e oggetti. Ma non c'è impatto in quanto quasi tutti i 160 minuti del film appaiono impermeabili, inframmezzati dagli squarci di un talento che c'è (la parte finale, il musical con le ballerine con il lokk alla Marylin Monroe) ma appare sprecato in un delirio d'onnipotenza insopportabile. Kelly da l'impressione di rubare dalle varie arti proprio perché Southland Tales apparirebbe altrimenti un'opera di una povertà imbarazzante. E, di fatto, lo è. Oltre Eliot e Dick, Kelly riprende il fumetto e la pop-art, e soprattutto utilizza una colonna sonora ricchissima che mescola, per esempio, Moby con Ravel, Louis Armstrong con i Radiohead, Wagner con Muse. E soprattutto copia volgarmente gli abissi lynchiani lasciando le azioni in una dimensione quasi a metà tra il reale e il soprannaturale. Ma, volendo spingersi all'estremo, Southland Tales non è migliore del pessimo Battaglia per la terra, uno dei più clamorosi flop di John Travolta. Probabilmente il film di Kelly andrebbe visto come successioni di molteplici segmenti da videoclip. Forse in quel caso funzionerebbe.

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