VENEZIA 64 – "Cristovao Colombo – O enigma" di Manoel de Oliveira (Fuori Concorso)

CRISTOVAO COLOMBODe Oliveira trova una nuova, stupefacente frontiera al discorso sulla Storia di tanti suoi film. Passato e presente, Portogallo e America si specchiano in continuazione fino a diventare il movimento stesso della Storia, perennemente alla ricerca di se stessa e che si trova proprio in quanto ricerca
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CRISTOVAO COLOMBOOmero aveva già capito tutto. Ulisse varca le colonne d’Ercole e si trova a Lisbona (Ulisseia, anticamente): i leggendari conquistatori portoghesi di mari e terre del cinquecento e oltre, partendo da là non faranno che inserirsi in questo solco “sempre già tracciato”; la stessa cosa vale per gli americani oggi (come già veniva detto in “Um filme falado” quattro anni fa.
Tutto ciò ce lo dice all’inizio del film Manuel Luciano, lisboeta che nel 1946 emigra col fratello in America per raggiungere il padre; diventa medico insigne, torna in patria e passerà la vita a inseguire la storia insieme alla moglie sulle due sponde dell’Atlantico, i suoi documenti e i suoi monumenti. Ad animarlo, la convinzione assai ben documentata che Cristoforo Colombo sia in realtà lusitano.

Il filone “metastorico” oliveriano subisce un’altra geniale torsione. L’ennesima “passeggiata nella storia”, appassionante carrellata di reperti di altre epoche come già (fra gli altri) “No, o la folle gloria del comando”, “Il convento”, “Viaggio all’inizio del mondo”, “Un filme falado” (e prima ancora, inevitabilmente, il viaggio in Italia rosselliniano), è un gioco di specchi che moltiplica la vertigine come forse mai prima, nemmeno in Oliveira. Portogallo e America, Passato e Presente, stratificazione temporale del monumento e attualità della macchina da presa in funzione, bandiera portoghese e fanciulla vestita in rosso-verde che muta accompagna le peregrinazioni dei personaggi, riverberano il paradosso, che li lega separandoli, addirittura al soggetto e all’oggetto stessi della ricerca. Manuel Luciano attraversa continuamente gli oceani per rincorrere Colombo che specularmente attraversa oceani alla scoperta; il Luciano che vediamo nella seconda metà del film (ambientata oggi) è interpretato da de Oliveira medesimo, che diventa automatico “monumento” del suo personaggio, documento in diretta sul suo eroe e su lui stesso, come si volesse estendere la vertigine di “Porto della mia infanzia” all’intera Storia universale.

Non si cerca mai “qualcosa” (come credono gli imperialismi di tutte le epoche), si cerca sempre e solo la ricerca stessa; il movimento eterno della Storia è quello che non arriva mai a una fine ma trova sempre se stessa in quanto ricerca irresolubile della fine. Per questo non c’è futuro che non sia essenzialmente Nostalgia (saudade), come viene detto esplicitamente in una canzone alla fine. A noi spettatori non resta che affiancarci a de Oliveira nell’immensa nostalgia del venire noi stessi “monumentalizzati”: dall’illusione frontale dell’inizio del film che ci piazza davanti a dei documenti manoscritti (che attestano che Colombo si chiamava in realtà “Colon”) facendoci credere di poterli guardare dall’esterno, all’inquadratura pre-finale che riquadrando in una finestra de Oliveira e la moglie sì li “museifica” come in un dipinto, ma il loro sguardo in macchina verso di noi ci risucchia a nostra volta nel museo. In quel museo automatico che è la Storia, che esattamente come il cinema scambia incessantemente di posto Passato e Presente, li rende indistinguibili come le onde e il mare sui titoli di coda.

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