“I am locked in a very expensive suit” – Leonard Cohen

In un certo senso il suo primo approccio con l’ascoltatore, prima ancora della profondità dei versi, era l’austerità della presenza. Quell’antispettacolarità che già trasuda dalle copertine

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“I am locked in a very expensive suit”

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(dalla poesia “The Suit” di Leonard Cohen)

 

 

Proprio come David Bowie, Leonard Cohen ci lascia pochi giorni dopo aver pubblicato il suo “testamento” artistico: You Want It Darker. Entrambi, poi, avevano scelto di lanciare i loro ultimi lavori nel giorno dei rispettivi compleanni. Certo, si fa fatica ad immaginare due protagonisti più diversi della scena musicale: eclettico e camaleontico l’uno, quanto ascetico ed (apparentemente) immutabile l’atro. Eppure, benché in modi antitetici, per entrambi la propria immagine personale ha rappresentato il primo “mezzo” con il quale entrare in contatto con il pubblico.

C’è un aneddoto che spiega bene com’era percepito Leonard Cohen, a raccontarlo è Rufus Wainwright nel documentario “Leonard Cohen: I’m Your Man” di Lian Lunson. Rufus racconta di essere amico di lunga data della figlia di Leonard Cohen: Lorca, ma di essere sempre stato piuttosto nervoso all’idea di incontrare il padre; un giorno sale a casa loro per un caffè e vede Leonard Cohen vestito della sola biancheria intima ed intento a preparare del cibo per dar da mangiare ad un uccellino caduto dal nido, dopo un po’ Leonard Cohen si allontana per tornare qualche minuto dopo vestito di tutto punto in un abito di Armani, solo a quel punto Rufus, nel vederlo, esclama: “Oh mio Dio, Leonard Cohen!”.

Ecco, in un certo senso il suo primo approccio con l’ascoltatore, prima ancora della profondità dei suoi versi, era l’austerità della sua presenza. Quell’anti spettacolarità che già trasuda dalle copertine dei suoi dischi che lo vedono (quasi) immancabilmente “imprigionato in un abito costoso”; un’austerità sicuramente pensata per consentire all’ascoltatore di concentrarsi meglio proprio sul contenuto delle sue liriche ma che, nel corso delle decadi, ha comunque fatto di lui una figura iconica.

È stato lui stesso a spiegare quant’è importante dare ai versi il giusto risalto eliminando ogni spettacolarizzazione: in “How to speak poetry” (contenuta nella raccolta di poesie “Death of a Lady’s Man” uscita nel 1978, un anno dopo l’omonimo disco) dice: “Questi pezzi sono stati scritti in silenzio. Il coraggio dell’esibizione sta nel recitarli. La disciplina dell’esibizione sta nel non violentarli. Fa’ che il pubblico senta il tuo amore per l’intimità anche se non c’è intimità.”

Perché se c’è un cantautore del quale si possa dire davvero serenamente che era un poeta quello è certamente Leonard Cohen visto che il suo esordio nel mondo della musica arriva (ben oltre i trent’anni) quando ha alle spalle una carriera più che decennale di poeta con all’attivo diversi volumi di poesie ed un romanzo; sebbene neanche lui sopportasse queste categorizzazioni ed al giornalista che gli chiede: “Signor Cohen, lei si considera più un musicista o un poeta?”, lui risponde: “Mi considero una puttana. Una brava”, citando un altro verso di “How to speak poetry”.

Nel 1967 quando gli altri cantautori (da Dylan in poi) scrivono di impegno politico e sociale, lui esordisce con Songs Of Leonard Cohen, parlando di storie di amori finiti, di religione e di morte. Le canzoni vengono suonate in maniera minimale ed acustica, mentre gli altri cantautori hanno “scoperto” da tempo l’orchestrazione elettrica, la famosa esibizione di Dylan a Newport era avvenuta più di due anni prima. In un certo senso, musicalmente, nasce già vecchio. I successivi: Songs From a Room (1969) e Songs Of Love and Hate (1971), non si distaccano poi molto dall’esordio: ancora una voce tagliente racconta storie di un pessimismo sempre più nero, alleggerite, qua e là, da qualche arrangiamento di archi. Dopo un lungo periodo di silenzio, Cohen torna, nell’anno del punk, con Death Of A Ladies’ Man (1977) in cui, ancora fuori tempo massimo, introduce le orchestrazioni elettriche (arrangiate, niente di meno, che da Phil Spector), album del quale si dirà sempre insoddisfatto proprio per non essere riuscito ad avere un rapporto davvero collaborativo con Spector al quale, alla fine, ha lasciato l’ultima parola sulla produzione delle canzoni. Seguono poi: Recent Songs (1979) e Various Positions (1984) fino a I’m Your Man (1988) album che finalmente lo consegna all’apprezzamento unanime di pubblico e critica.

Ma sarà  The Future (1992) a rappresentare il suo primo vero successo commerciale, unico album nel quale non compare lui stesso in copertina, è l’album della “svolta pop” in cui arrangiamenti moderni accompagnano testi che raccontano di visioni apocalittiche, costantemente disinnescate con grande ironia. Dopo un altro lungo silenzio, in cui ha vissuto per anni in un monastero zen, il nuovo millennio lo ha visto molto produttivo con Ten New Songs (2001), Dear Heather (2004), Old Ideas (2012) e Popular Problems (2014).

I suoi dischi restano indubbiamente fra le vette poetiche della musica contemporanea ed hanno influenzato schiere di autori: dal nostro Fabrizio De Andrè, a Nick Cave, fino a Father John Misty.

Quale modo migliore per salutarlo se non utilizzando le sue stesse parole: “I love to speak with Leonard/He’s a sportsman and a shepherd/He’s a lazy bastard/Living in a suit … Going home/Without my sorrow/Going home/Sometime Tomorrow/ To where it’s better/Than before … Going home/Without the costume/That I wore” (Amo parlare con Leonard/E’ uno sportivo ed un pastore/E’ un indolente bastardo/Che vive in un abito … Andando a casa/senza rimpianto/Andando a casa/forse domani/In un luogo migliore/di quello precedente … Andando a casa/Senza il costume/Che ho vestito) da Going Home contenuta in Old Ideals.

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