Il mestiere delle armi
Suscita rispetto e incute timore Il mestiere delle armi. Rispetto per una progettualità di cinema sempre coerente in Olmi, per un lavoro artigianale che sembra seguire le regole del laboratorio del regista stesso. Timore per la distanza che intercorre tra la materia e lo sguardo, tra la costruzione dell'opera (il lavoro della guerra come il lavoro del cineasta) e il risultato della rappresentazione. Distanza e timore anche per la necessità di trattare la Storia argomento alto in cui le icone (quella di Pietro Aretino, di Federico Gonzaga di Alfonso d'Este e soprattutto di Giovanni de' Medici) prevalgono sul mito. Dentro Il mestiere delle armi si sente il gelo della Morte. Morte già annunciata, in apertura, con l'immagine del feretro di Giovanni de' Medici (con una data precisa in didascalia, il 30 novembre 1526), con le testimonianze sulla sua figura che aprono e sviluppano un'opera già "al passato". Ma morte anche annunciata con un'aspirazione all'inanimazione, all'arresto del movimento e alla fissità dello spazio. Il set prende pallidamente vita dalle cartine geografiche, i personaggi da raffigurazioni su testi d'epoca o da dipinti. Il gelo, la neve, gli ampi e desolati scenari della pianura padana prevalgono sulla battaglia tra le armate delle truppe pontificie (il cui capitano è proprio Giovanni de' Medici) e gli Alemanni. In effetti ciò che penetra dentro Il mestiere delle armi è proprio la fatica della quotidianità (L'albero degli zoccoli, I fidanzati), il lavoro come necessità (Il posto, Lunga vita alla signora). Una visione esistenziale estremamente scarna in cui l'oggettività si mescola talvolta con schegge di un sentimento di fede (Un certo giorno). Ma Olmi, coerentemente, non si mette mai in gioco. Il mestiere delle armi apre squarci visivi su un'epoca. Il primo Rinascimento è guardato come tardo Medioevo dove l'uomo, con il suo stesso corpo, è principalmente "macchina da guerra". Certamente, nel cinema italiano che quest'anno sembra guardare "tempi lontanissimi" (il deludente e presuntuoso I cavalieri che fecero l'impresa di Pupi Avati, il coraggioso ed essenziale Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti), l'opera di Olmi è ammirevole per il suo rigore figurativo, per il rispetto assoluto nei confronti della materia trattata e soprattutto per il suo personaggio. Ma ne Il mestiere delle armi non c'è mai partecipazione, non c'è una goccia di sudore, non si avverte mai la prevalenza della carne sulla raffigurazione (tranne nel finale con le scene dell'agonia di Giovanni de' Medici che creano una violenta frattura rispetto al precedente equilibrio visivo).
Un film pedagogico forte quello di Olmi, che evidenzia tappe fondamentali dell'arte del combattimento (l'invenzione dell'arma da fuoco che ha ucciso Giovanni de' Medici), ma un film in cui si sente tutto il peso del meccanismo che l'ha guidato, che lascia fuori-campo, accennati e abbandonati, un erotismo mai risolto, uno slancio sempre troppo contenuto, un'illusorietà e sfuggevolezza della giovinezza che forse ha rappresentato l'idea e l'utopia più interessante del film. Peccato sia rimasta soltanto un'ipotesi.
Simone Emiliani