La morte nei cinema (The Long Goodbye)

Mai come in questo momento la sala cinematografica, in America certo ma è lì che è sempre stato il Cinema, celebra il suo lungo addio con una partitura suonata da proiettili illogici e insanguinati.

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Come scrivemmo da Venezia un paio d’anni fa, The Canyons di Paul Schrader (e Bret Easton Ellis) è un film strano, probabilmente non riuscitissimo. Eppure ha almeno una sequenza che in questi anni ci siamo portati dentro e che è ciclicamente tornata in ballo durante le nostre riunioni redazionali e le nostre discussioni sul futuro del cinema. È proprio quella con cui si apre il film, quei titoli di testa malinconici, quasi funerei, su delle sale cinematografiche in disuso nella periferia di Los Angeles. Istantenee decadenti su un luogo che un tempo era stato il tempio onirico e divulgativo delle masse.

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Oggi – ci diceva Schrader, ma lo si era capito da tempo – non è più così. La sala cinematografica non conta più come spazio in cui consumare immagini e in tempi di streaming e home video andare al cinema non è più la condizione essenziale – e forse tecnologicamente nemmeno la più appagante – per vedere un film. Martin Scorsese nel suo documentario sul cinema americano parlava della visione in sala come di un’esperienza liturgica, in cui ogni singolo individuo si ritrovava assieme ad altri come lui a condividere un’esperienza sociale e allo stesso tempo spirituale. Un’immagine bella, concepita da cinefili cresciuti negli anni ’50 e ’60 in cui davvero andare al cinema era una “religione”. Un’immagine anche datata, certo. Destinata inevitabilmente a sbiadirsi al cospetto della leggerezza orizzontale di questa nuova epoca digitale.

Sicuramente però, di fronte a questa visione nostalgica e comunitaria della sala “piena”, la terribile sparatoria avvenuta ieri nel Grand Theatre di LaFayette in Louisiana, che ha provocato la morte di due donne, assume i contorni allucinatori della fine del sogno. È come se il nichilismo e la disperazione avessero soppiantato il piacere e la magia. Non c’è più spazio per il sacro. Ma forse neppure per il divertimento usa e getta. In realtà la cronaca ci sta portando ben oltre.

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la scena della sparatoria in Louisiana

I cinema non sono più soltanto luoghi morti, ma ora diventano anche luoghi di morte, spazi in cui un essere umano senza alcun tipo di motivazione sceglie di entrare e aprire il fuoco su persone che si trovano lì per vedere semplicemente uno spettacolo di finzione. Il caso della Louisiana non è certo il primo. Tre anni fa James Holmes, vestito da Joker, entrò in un cinema del Colorado durante l’anteprima di The Dark Knight Rises e cominciò a sparare agli spettatori uccidendone dodici. Allora si tirò in ballo lo spirito di emulazione del giovane –che proprio pochi giorni fa è stato condannato a morte – verso il personaggio del film di Nolan. Una riflessione simile accompagnò altre tragedie, di cui oggi si ha minore memoria.  Il 25 dicembre del 1990 in una sala cinematografica di Long Island scoppiò una rissa tra bande rivali durante la proiezione de Il padrino parte III di Francis F. Coppola nel corso della quale perse la vita un ragazzo di quindici anni e un anno dopo l’opera prima di John Singleton Boyz ‘n the Hood scatenò una serie di atti vandalici in molti cinema periferici delle grandi metropoli americane. “La violenza sullo schermo si traduce in violenza nella realtà” sosteneva in quegli anni la National Coalition on Television Violence. E sono in tanti ancora oggi a pensarla così. Ma come la mettiamo con la sparatoria in Louisiana, dove il film in programmazione era una commedia di Judd Apatow?

Forse prima di addentrarci in (im)possibili riflessioni sui condizionamenti psicologici che un’opera cinematografica o letteraria può scatenare nelle personalità più fragili sarebbe il caso di ricordare che a oggi l’America è il Paese occidentale dove per un cittadino qualunque è più facile acquistare armi da fuoco. In un’intervista rilasciata alla Bbc il presidente Obama ha malinconicamente ammesso che “gli Stati Uniti sono l’unica nazione sulla Terra che non ha una legge di buon senso sul controllo delle armi”. Il problema è complesso e forse riguarda persino più in generale la storia d’America e i suoi due assassinii più celebri  – quelli del presidente Lincoln e di John F. Kennedy, stranamente accompagnati da una contestualizzazione performativa e “spettacolare” eccezionali. John Wilkes Booth era un attore e uccise Lincoln proprio in un teatro, mentre veniva messa in scena la commedia Our American Cousin. Kennedy venne assassinato a Dallas e la sua morte accidentalmente filmata dal videoamatore Abraham Zapruder, in quello che volenti e nolenti è stato forse il primo snuff movie (godardiano) del cinema moderno.

La pazzia e la violenza in America hanno bisogno di una platea e di una rappresentazione simbolica, quasi inaugurando una specie di comunicazione malata  tra il terribile atto di uccidere e lo spettacolo da mettere in scena o proiettare. Ma per quanto destinato da decenni al fallimento, il grande schermo meritava questa morte accelerata? Mai come in questo momento la sala cinematografica, soprattutto in America certo ma è lì che è sempre stato il Cinema, celebra il suo lungo addio con una partitura suonata da proiettili illogici e insanguinati che proprio nulla hanno che vedere con Joe Pesci o James Cagney.

L’insicurezza di questi tempi trova la sua isola felice nelle visioni domestiche davanti a un piccolo schermo. E la comunity che ama le storie e i racconti per immagini incrocerà sempre più virtualmente passioni, idee, fantasie… lontano dai drive-in, dalle sale d’essai, dai centri commerciali. “E’ il futuro, bellezza!”

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