#RomaFF13 – Notti Magiche. Incontro con Paolo Virzì e il cast

Il regista ha raccolto “certi ricordi, sogni, aneddoti” e, insieme agli sceneggiatori Francesco Piccolo e Francesca Archibugi, ne ha fatto “un racconto che riflettesse Italia ’90 e Cinecittà”

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Nelle sale dall’8 Novembre, chiude oggi la Festa del Cinema di Roma Notti Magiche di Paolo Virzì. Nel suo ultimo film, il regista toscano racconta il cinema italiano degli anni ’90 attraverso la storia di tre giovani ragazzi, aspiranti sceneggiatori, che per la finale del celebre Premio Solinas vengono chiamati a Roma nell’estate degli storici mondiali di calcio, giocati in casa dalla nostra nazionale. Un soggetto che Virzì teneva nel proprio cassetto già da tempo, da “quando si chiamava Il grande cinema italiano, col sottotitolo di Italia ’90″, come rivela il regista, arrivato nella capitale nel 1985 per frequentare il Centro Sperimentale, e che da lì a poco avrebbe vissuto proprio quella “stagione emozionante, che ci è rimasta dentro” narrata nel film. Notti Magiche ha indubbiamente una forte connotazione autobiografica. Il regista ha raccolto “certi ricordi, certi sogni, certi aneddoti che alimentavano le nostre conversazioni” e, insieme agli altri due sceneggiatori Francesco Piccolo Francesca Archibugi, ne ha fatto “un racconto che riflettesse quell’atmosfera, raccontando cosa vuol dire narrare attraverso i tre giovani protagonisti, e cosa significa trattare la vita e trasformarla in un film“. 

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Come si intuisce dal titolo originale del soggetto, però, l’altro grande protagonista della pellicola è il cinema italiano, rappresentato da Virzì in tutta la sua decadenza, così pieno di personaggi opportunisti e disonesti, ma riportati sullo schermo a detta sua con puro spirito goliardico. Un cinico ritratto da non confondere quindi con una denuncia o un preciso messaggio di qualche tipo: “dal momento che noi siamo sempre riverenti verso la storia del nostro grande cinema, ci siamo presi una libertà impertinente, di smitizzare e canzonare. Quando ci siamo avvicinati a certe personalità inarrivabili, abbiamo scoperto la loro umanità, il disincanto, la volgarità. […] Lo prendiamo in giro quel cinema, come ci hanno insegnato a fare loro”. Il regista racconta infatti che la spinta definitiva ad avviare la produzione del film gliel’ha data la morte di Ettore Scola (“dopo la giornata in cui lo abbiamo salutato“), che gli ha scatenato il ricordo dei grandi maestri del suo calibro e la successiva volontà di “dargli omaggio e ringraziarli tutti, sfottendoli come facevamo“. Questa mistificazione dei mostri sacri ha così trovato partecipe anche Francesco Piccolo, che conferma questa strana dialettica tra ammirazione e presa in giro nel racconto, dicendo di aver affrontato tutto “con divertimento e col tentativo di non rendere sacro quello che ci affascinava e ci ha affascinato sempre“.
Gli autori invitano allora a prestare attenzione alla vicende dei tre giovani protagonisti, alla ricostruzione magica e nostalgica di quegli anni attraverso i loro occhi, ancora innocenti e sognatori. Afferma Virzì: “Non è una lectio sull’Italia, sul cinema. Ci sono questi temi, c’è il mondo dell’arte visto da degli outsider, c’è un lato umoristico su quei personaggi del cinema, ci sono ritratti laterali che ci stanno molto a cuore, che raccontano la questione di questo cinema e di un’Italia maschilista [..] ma spero non prevalgono. Noi volevamo concepire qualcosa che vi emozionasse“. Su una simile linea si posizionano i produttori del film:” questo non è solo un film sul cinema, ma di un sogno di ragazzi che vengono a Roma. È un film che racconta la loro esperienza e ci possiamo ritrovare tutti“.

I giovani, le nuove generazioni, di ieri e di oggi, sono infatti i veri protagonisti e al tempo stesso i principali destinatari dell’opera. Afferma Francesca Archibugi: “il film può risultare indigesto a chi era insieme a noi, ma abbiamo fatto un racconto proprio per chi non ha vissuto questa stagione“. Ed in questo interessante doppio ruolo si sono ritrovati gli stessi attori protagonisti, che data la giovane età anagrafica si ricordano a stento o proprio non hanno memoria di quegli anni. Il primo a parlare è Mauro Lamantia, interprete del messinese Antonio, l’attore più grande del trio, classe 1990: “l’anno della mia nascita, ero proprio in fasce. È stato come fare un viaggio nel tempo. La cosa che ho fatto prima di tutto è stato guardarmi la cerimonia di presentazione dei mondiali, chiedendomi con che coraggio si vestivano in quel modo“. Secondo Irene Vetere, la più giovane (classe ’99): “Più che cattivi (i cineasti del tempo, NdR) erano disperati” e precisa, inoltre, che il suo impatto col mondo del cinema attuale è stato ben più felice di quello che la sua Eugenia vive sullo schermo. Scherza infine Giovanni Toscano, interprete del bonaccione toscano Luciano: “io son nato nel ’96, per noi è come fosse un film d’epoca”, aggiungendo poi che: “leggendo le sceneggiatura e i racconti di Paolo, mi dispiace non aver vissuto questa figura dei maestri. A noi queste figure di riferimento ci mancano“.
E proprio a difesa di quei maestri, si scaglia Giancarlo Giannini, che nel film recita la parte del peggiore di tutti, il produttore mascalzone Leandro Saponaro. Lui quegli anni li ha vissuti già abbondantemente inserito in quel mondo ed “era comunque un grande cinema, i maestri erano anche degli insegnanti. […] Nel film tutto è stato raccontato con grande amore ma anche con grande malinconia“.

Non può mancare, in chiusura, un confronto tra la Roma del passato e quella del presente, che Virzì affronta con una toccante nostalgia: “appena sbarcai a Roma, la città era caotica, fuligginosa, piena di cose pericolose, licenziose. Piazza del Popolo era un gigantesco parcheggio di automobili, come Piazza Navona. Il Colosseo era nero per il traffico. Roma era sporca e corrotta. Ma per me era meravigliosa. Secondo il regista, il bilancio attuale è ben più deprimente: “Ora c’è un’incuria arrogante, manca il senso di responsabilità, ma forse è cambiato la mia sensibilità, son cambiato io. Quel paese lì, quella classe dirigente, era da criticare, ma era forse un po’ diversa rispetto allo sgomento di oggi, ora sembra porsi con un’altra ferocia […] sembra prevalere il disprezzo“.
L’autore condivide, invece, un’ottica sorprendentemente ottimista rispetto al cinema di oggi. A chi gli fa notare la crisi di numeri e risultati raggiunti dalle sale e dall’industria in generale, Virzì risponde:” la prima considerazione è che quando io sbarcai nel 1985 per andare a fare il Centro Sperimentale, si diceva esattamente questa cosa qui, che il cinema italiano era morto, non c’era più, che le sale chiudevano, che arrivava la tv commerciale e in sala c’erano solo prodotti stranieri. È curioso sentire raccontare questa cosa 32 anni dopo, come fosse una novità. È un tema che conosciamo da sempre“. Continua poi a descrivere un’interessante apertura produttiva odierna (“oserei dire che rispetto al 1985 in cui per cominciare il mestiere del cinema si doveva entrare nelle grazie di un maestro, in questo momento la mobilità sia molto più dinamica e vedo tanti giovani autori importanti“), finendo con una considerazione positiva nei confronti dei differenti device esistenti oggi (“nell’85 i film li guardavi o in sala o in tv, ma adesso il cinema si guarda dappertutto“). Sembrano pensarla come lui anche i suoi produttori (“sì, ci sono incassi bassi, ma la qualità produttiva e attoriale è cresciuta tantissimo in questi ultimi 5 anni“), confermando, forse, quanto sia vero che guardare il passato ci aiuta a migliorare il presente. In fondo, dopo quella batosta ai rigori con l’Argentina, sedici anni dopo ci siamo sicuramente rifatti.

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