"Tim Burton", di Antoine de Baecque

tim burton
Notevole riflessione sulla vicenda esistenziale e artistica di Tim Burton, che indaga i temi di un universo eccentrico e poetico interrogandosi sul paradosso di un cinema che, pur parte dell’industria hollywoodiana, continua a rispondere soltanto al suo autore. Da Lindau
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Tim Burton
Antoine De Baecque
Edizioni Lindau
Agosto 2007
pp. 176 – € 18,50
 
 
«Una testa di capelli che raccontavano molto più di una lotta notturna con il cuscino […] occhi spalancati e concentrati su nessun punto in particolare, occhi che hanno visto molto ma ancora divorano tutto ciò che incontrano»: sono le parole di Johnny Depp, riferite al suo primo incontro con Tim Burton, a introdurre l’ottimo saggio critico-biografico di Antoine de Baecque. Siamo nella primavera del 1989, quando il regista propone al giovane attore la prima di una lunga serie di collaborazioni: per Depp, l’uomo che gli appare davanti, con quell’aria fragile e gli occhi curiosi sotto la chioma ingovernabile, non è il regista che sta per realizzare Edward mani di forbice. Più semplicemente, Burton è Edward. Ed è partendo dall’inscindibilità tra l’uomo e il cineasta, in cui il cinema è vissuto come naturale «prolungamento visibile dell’esistenza», che il critico francese ha tracciato quest’ampio ritratto, alternando l’analisi critica ai dati biografici e lasciando in più occasioni la parola al regista e ai suoi più stretti collaboratori. Poteva concepire qualcosa di diverso da Edward mani di forbice o dalla Gotham City dei due Batman – è quindi la premessa – il ragazzino introverso e irrimediabilmente strano che nutriva con Edgar Allan Poe, gli horror di serie B e i film di Vincent Price la propria ribellione silenziosa alla quotidianità color pastello della città californiana di Burbank? Completamente impermeabile all’estetica e alla filosofia disneyana con cui è costretto a convivere negli anni del suo esordio come animatore, Burton dimostra già nei suoi primi progetti personali (i due corti Vincent e Frankenweenie) come l’unico universo che gli appartenga sia quello del macabro, fantastico, morboso rovescio della normalità americana. Se il primo (un omaggio a Price, suo idolo di sempre) ha nel suo protagonista malinconico e arruffato il primo abbozzo di eroe burtoniano, nel secondo – una rivisitazione canina del mito di Frankenstein, con un bull-terrier riportato in vita dal suo padrone, un bimbo di dieci anni – fanno la comparsa alcune di quelle ambientazioni (i quartieri lindi e ordinati dei “buoni americani” e, soprattutto, il cimitero) che torneranno più volte nell’immaginario del regista.
Ciò che de Baecque tiene a sottolineare è come la disordinata creatività burtoniana, potenzialmente quanto di meno adatto a convivere con le regole della macchina hollywoodiana, sia invece riuscita a imporsi senza cedere quasi mai alle logiche commerciali, grazie soprattutto a un’ostinazione che per Burton nasce dall’incapacità di interessarsi a un progetto in cui non ritrovi forti legami emozionali con la propria personalità e le proprie esperienze dirette. Dal suo vissuto di adolescente alienato nasce la fascinazione per il potere liberatorio del travestimento e delle maschere, come espediente che permette l’emergere delle emozioni più vive, oscure o rimosse. Che sia Johnny Depp nel ruolo di Edwardo Jack Nicholson in quello di Joker, l’attore sprofonda dietro la maschera fino a toccare qualcosa di sconosciuto, e le parate che attraversano ogni film, dalla cerimonia delle zucche in The Nightmare Before Christmas alle incursioni dei marziani alla Casa Bianca in Mars Attacks!, dalla sequenza circense in Big Fish alla danza febbrile de La sposa cadavere, rivelano la natura di un cinema che «ha la virtù di trasformare l’universo nella scena di un carnevale». Allo stesso modo, l’amore per il cinema come mondo sostitutivo, rifugio dai problemi della società reale, porta Burton a omaggiare Ed Wood come cineasta ideale perché si è scelto il cinema come famiglia e vi ha riposto un’illimitata, infantile fiducia, mentre la maniera di concepire la civiltà a partire dai suoi angoli più segreti e oscuri fanno del regista di Sleepy Hollow l’interprete ideale del genere gotico, reinventato come manifesto estetico, ma anche politico e morale.
Negli anni duemila, de Baecque vede l’evoluzione dell’universo cinematografico di Burton come un meccanismo che si inceppa su un film sbagliato, Il pianeta delle scimmie, per poi rimettersi in moto con Big Fish, il film della maturità e dell’elaborazione del lutto paterno, La fabbrica di cioccolato,parabola triste sull’infanzia degenerata, ma soprattutto con La sposa cadavere, «La camera verde di Tim Burton, una camera ardente illuminata e dedicata ai suoi morti», una dichiarazione d’amore per i morti, più belli, più divertenti, più sensibili dei vivi. Burton modella sulle sembianze della moglie Helena Bonham Carter non Victoria, la viva, bensì Emily, la sposa col corpo mezzo decomposto che pare tenuto insieme solo dall’abito nuziale, ma con la bocca sensuale tinta di rossetto. Antoine de Baecque riconosce negli antieroi burtoniani, che aprono destabilizzanti vie di comunicazione tra l’infanzia e la morte, la bellezza e la mostruosità, l’igiene e il marciume, un’istanza politica estremamente sovversiva: «Ci si accorge velocemente che la pulizia e la vivacità dei colori delle città di Burton sono lì solo per generare il mostro nero, il cadavere vivificato che dovrà animarle, che dovrà farle godere terrorizzandole. Tim Burton mette il mostruoso là dove l’America vorrebbe vedere il proprio riflesso pacifico; fa sparire l’armonia ingerendola, digerendola e poi vomitandola in altrettante pratiche malefiche e burlesche».
 
 
 
Indice:
 
Il bambino veggente
L’emergere di un mondo
Beetlejuice gioca con la morte
Batman, cavaliere delle tenebre
Edward mani di forbice
Ritorno a Batman
Tim Burton’s The Nightmare Before Christmas
Ed Wood, l’artista dei sogni
Mars Attacks!
Il mistero di Sleepy Hollow, macabra energia
Da Il pianeta delle scimmie a Big Fish
La fabbrica di cioccolato
La sposa cadavere, girotondo finale
Filmografia
 
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