#Venezia73 – Die einsiedler (The Eremites), di Ronny Trocker

Se davvero esiste una comfort zone del cinema italiano, Ronny Trocker, autore di Die einsiedler suo primo lungometraggio, ne è fuori. In Orizzonti

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Se davvero esiste, come si sostiene giustamente in queste colonne, una comfort zone del cinema italiano Ronny Trocker, trentottenne autore bolzanino, ne è assolutamente estraneo. Lo conferma la sua sconosciuta filmografia, fatta da lavori brevi e non fiction, e anche Die einsiedler (Gli eremiti) suo primo lungometraggio ospitato dalla Mostra veneziana ad Orizzonti.
Trocker è un antiretorico, così almeno appare dalle asciutte immagini di questo film, così calibrato ed estraneo ad ogni magniloquente apologia della vita dei montanari. Il suo obiettivo si stringe su una famiglia che abita un Maso lontano da ogni contaminazione cittadina. UnDie Einsiedler, Venezia 73 eremo che sfida la contemporaneità restando arroccato ad un tempo indefinito. Vi abitano l’anziana coppia e il cane, un asino, qualche capra e qualche mucca. La vita è quella fangosa e dura della montagna, tra la neve che non è la consolazione vacanziera del fine settimana e la fatica del lavoro. Il figlio della coppia, Albert, lavora in una cava di marmo, abita in città e quasi quotidianamente va a trovare gli anziani genitori. Anche la morte in montagna si chiude nel breve spazio di una sepoltura, senza fronzoli, senza parole, senza un nome da scrivere, in un dramma muto e segreto che sembra essere seppellito insieme al corpo del defunto.
Trocker ha molto coraggio nel proporre un tema lontano da ogni riflettore, riuscendo a trasferire nelle immagini, prive di ogni effetto di sensibile magnetismo, quel senso di chiusura

Die einsiedler, Trockerad ogni altra possibile soluzione che non sia quella di una solitudine innata e non risolvibile, di una condizione che non può mutare e non trova alcuna solidarietà con il prossimo. Trocker gira con la stessa intensità abbiamo avvertito in certe sequenze di Olmi, originario e silenzioso interprete di segreti arcaici custoditi dalla terra. Sequenze e immagini che infrangono quindi ogni possibile retorica e raccontano con originale intensità la ruvida solitudine custodita dalla silenziosa oscurità e dal mistero di ogni montagna.
È Albert però il personaggio centrale del film, il baricentro che misura la distanza tra il mondo contemporaneo nel quale è immerso, che naviga tra la insensibilità capitalistica e i sentimenti che non si sanno esprimere come quelli nati tra Paola e Albert e un mondo ancestrale la cui bellezza sembra essere solo vagheggiata, ma destinato ad essere seppellito insieme ai corpi che lo hanno abitato. Trocker lavora come un chirurgo, senza lacrime e incide il tessuto antico di queste comunità per aprirle con le immagini al mondo, per cantarne la scomparsa e raccontarne la profondità, realizzando un film invisibile, minuscolo, legato probabilmente alle sue tradizioni, ai ricordi, ai racconti dei suoi antenati. Stabilizza le proprie immagini su piccole cose, senza il rimpianto di una Die einsiedlercarrellata lenta, ma addirittura in qualche momento sembra volere cancellare il ricordo, sembra volerne accelerare la definitiva cancellazione, poiché troppo doloroso il trapasso. Ne è prova la repentina e impietosa fucilata contro il Crocefisso. Affida questo compito così ostico e così disperato agli occhi duri e all’espressione inflessibile di Ingrid Burkhard madre di Albert la teutonica piccola donna che supera la propria fragilità esistenziale amplificata dalla solitudine con una ferrea volontà di resistenza.
Il cinema di Trocker, che si affaccia alla ribalta internazionale, mette a segno un colpo non da poco, con un coraggio non comune traccia i confini di un cinema che si affranca da ogni facile fruizione e resta legato drammaticamente ad una tradizione regionale, senza diventare regionalistica e dalle fragili valli dell’Alto Adige guarda ad ogni anima umana che non trova un posto nel mondo se non quello silenzioso della terra che copra ogni ferita.

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