Los Lobos, di Samuel Kishi Leopo

Sul filo di un confine insanguinato il film visibile al FESCAAAL su MyMovies restituisce luce al dettaglio protagonista e racconto a futura e passata memoria. In Concorso

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Di sicuro non è molto originale una storia di emigrazione che racconti di una madre e due bambini spinti dalla disperazione oltre quel confine così insanguinato che dal Messico porta negli Stati Uniti. Non è così originale, ma altrettanto sicuramente quando sullo schermo appare Lucia la giovane madre di Max e Leo che con un permesso turistico è entrata negli Stati Uniti e, trascinando il suo trolley e i due figli vestiti poveramente, si guarda attorno disperata, ma determinata, un certo effetto lo fa.
Samuel Kishi Leopo scrive e dirige un film molto personale, forse in parte lo riguarda come accenna nella breve e preliminare presentazione. Los lobos, in Concorso al FESCAAAL30 di Milano, diventa così il viaggio di un sogno che non si avvera per i due bambini che desideravano Disneyland. Diventa il luogo dell’indifferenza che Kishi Leopo sintetizza nella sequela di richieste che Lucia rivolge ai vari proprietari di fatiscenti locali per cercare di assicurare un rifugio a sé stessa e ai figli o in quella carrellata di ritratti di gente del luogo, in quel disfacimento sociale attraversato dai canali dei cartelli della droga e in un anonimato che appartiene all’invisibilità rispetto al resto del mondo.

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Tutti, muti, paiono osservare le vicissitudini della giovane madre messicana. Lucia troverà rifugio in una misera e sordida stanza con bagno, di proprietà della signora Chang, emigrata anche lei ma che ha fatto i soldi. Quel luogo squallido diventerà il posto dei sogni per i due bambini quando la madre sarà assente per tutto il giorno per lavorare. Luogo in cui si consumeranno le attese e si darà vita a quella immaginazione che fa da rimedio ad una infanzia clandestina. Los lobos diventa un film di solitudini assolute, di derive nelle quali i protagonisti vedono allontanarsi i ricordi familiari, i legami di sangue e i luoghi consueti della vita di prima. Nella impossibile replica di quella vita, nel rispetto di regole che non possono essere osservate, solo un registratore diventa il filo fragile e sottile che lega il passato al presente nella ripetuta lettura di nastro registrato dove c’è incisa la voce del nonno, destinata ad essere travolta da un presente che non sembra prevedere il rapporto con nessun passato. Così come sarà distrutta la foto del padre di Max e Leo conservata in un vecchio portafogli, unica rivalsa di Lucia contro l’abbandono.
Samuel Kishi Leopo lavora sull’immaginario dei due bambini in quella stanza che diviene lo spazio dell’attesa del ritorno della madre, ma anche dell’immaginazione, quando i suoi muri si tingono dei colori delle animazioni dei lupi ninja, di cui i bambini mimano le gesta rinchiusi in quei pochi metri quadrati con il divieto di varcare la soglia, mentre fuori il mondo vive le sue avventure e i loro coetanei giocano con una vera palla e non con una di carta tra le mura di una stanza disadorna.

Si nutre di questa vita inventata il film del regista messicano, le sue immagini vivono sulle assenze, piuttosto che sulle differenze, in quella solitudine che solo una improvvisa e amorevole signora Chang sembra interrompere.
Tutto si trasforma per il comportamento trasgressivo di Max, il maggiore, che nel violare le regole imposte dalla madre e quel confine così ostruttivo della porta di casa, finisce con lo scoprire quel mondo guardato da dietro i vetri. Un mondo minaccioso, per nulla rassicurante, che vive in quei dettagli del racconto che solo l’occhio della macchina da presa sa catturare, una linea d’ombra infida e ostile per i due piccoli protagonisti disarmati davanti alla pericolosità della vita. È in questo naturale percorso, attraversato dalle ansie di Lucia, che Los lobos diventa un racconto facilmente leggibile, la narrazione di un’odissea che non finisce, l’immagine forse già vista, ma sempre scomoda, di chi vive sul filo di una speranza che si fa disillusione, ma è anche il resoconto di una specie di salvezza, quella dell’immaginazione che salva dal presente.
Al contempo il film è anche la traccia del limite del sogno, il confine di ogni tradizione in quel rigenerarsi dei propri ricordi alla luce di una globalizzazione che sembra dovere cancellare ogni traccia del proprio passato. Già tutto sembra definirsi in quel desiderio ricorrente di Disneyland, che per i due bambini, comunque figli di quella globalizzazione, significa l’apice di ogni immaginazione, un sogno che cancella progressivamente, e continuerà a cancellare, il rapporto con i propri passati, con i propri immaginari, mentre la madre, la povera Lucia senza risorse, continuerà a vendere la propria forza-lavoro ai mercanti spregiudicati di manodopera su quel confine che diventa il muro in cui si infrangono speranze e progetti.

I lupi del titolo sono dunque molti e Samuel Kishi Leopo sa ricostruire i sentimenti e raccontare una di quelle storie semplici che sembra naturale dovere condividere. Un cinema che non pretende quasi nulla, quasi come i due piccoli protagonisti, ma che sa indagare su quelle solitudini mostrando i lati oscuri di infanzie segregate, dove Max e Leo diventano personaggi simbolici di una più vasta platea. Los lobos racconta anche il prosciugarsi di ogni memoria del passato, quando il presente diventa incombente ed è questo probabilmente il tratto più malinconico, quello del progressivo cancellarsi di ogni memoria, di ogni tradizione.
Dunque, non ci sarà molta originalità a raccontare una storia di emigrazione, ma nel già detto c’è sempre qualcosa che resta in ombra e Los lobos sa restituire luce a questo dettaglio che sa farsi protagonista e racconto a futura e passata memoria.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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