Il quinto set, di Quentin Reynaud

Sa mantenere alta la tensione narrativa e scava con un certo successo e una sua originalità di linguaggio nell’infelicità del protagonista. Su Netflix

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Prova a correre in più direzioni, ad esplorare più strade il film di Quentin Reynaud che, nel suo principale assunto racconta il tentativo di Thomas Edison, ex promessa del tennis francese, di resistere, all’età di 37 anni, al lento e inesorabile declino. Un tentativo che è pieno di sacrifici, di lavoro, di stanchezza e di dissidi familiari con Eve, la giovane moglie che, a sua volta, ha rinunciato alla sua carriera di tennista, per consentire al marito di proseguire la sua. Su tutto questo svolgersi di ansie e prospettive di vita definitive, c’è lo sguardo comprensivo, ma severo della madre di Thomas che, da esperta di tennis ed ex allenatrice, segue le peripezie del figlio senza troppe speranze.
Ancora una volta lo sport diventa l’arena dentro la quale si gioca la partita della vita, dentro la quale i destini si confrontano con l’imponderabile. Il quinto set sa mantenere alta la tensione narrativa, affidando la rielaborazione dello sguardo di un perdente, in prospettiva di una possibile e definitiva rivincita, alla connaturata umiltà e consapevolezza di questo personaggio che sembra assumere su di sé ogni dolorosa precarietà che, contro ogni speranza, lo esclude, definitivamente da ogni competizione. È un rimettere insieme i pezzi, non solo di un morale disfatto da troppi anni da delusioni sportive contrappuntate dai commenti giornalistici che lo segnano come “ex promessa” del tennis francese, da un corpo che sembra disunirsi nel dolore che preannuncia la definitiva compromissione della già fragile articolazione del ginocchio o del palmo della mano destra, che negli anni ha impugnato migliaia di volte la racchetta, segnato dalle stimmate dolorose che aprono ferite inguaribili e sanguinose e che sembrano provenire direttamente dall’anima. È un contare gli anni. Thomas ne ha 37 e per giustificare una sua residua vitalità ricorda i successi dei grandi giocatori, Connors, ad esempio, che a 39 anni era ancora in grado di vincere. È questa voglia di esserci che fa rinascere il suo desiderio di vincere confermato dalle qualificazioni al Roland Garros e dalla sua partecipazione al primo turno del prestigioso torneo.
Reynaud, in questa ennesima parabola sportiva, ambiente che si presta al racconto della risolutiva sconfitta, piuttosto che a quello della effimera vittoria, scava con un certo successo e una sua originalità di linguaggio nell’infelicità di Edison, in quella della sua compagna e del loro rapporto logorato dall’assenza di lui e tenuto in vita da quel filo d’amore resistente e quasi invisibile che lega i due personaggi: lei spettatrice della vita e lui protagonista di una vita inadatta ad ogni condivisione.
Il tennis, lo sport pur nel suo usurato scenario, è, ancora una volta, la misura di questa parallela competizione che non lascia spazio all’incertezza del chi sarà il vincitore. Reynaud, dicevamo lavora su un linguaggio originale che trova fondamento ed efficacia nel suo stile quasi documentaristico, di indagine, da pedinamento con la macchina a mano che sta incollata al suo Thomas, al suo volto interrogativo e sconfitto, ma sta soprattutto incollato, con una prospettiva partecipativa, al gioco durante le partite decisive, quelle che sembrano riaprire le speranze di Edison. Il regista francese sa articolare il segmento della parabola discendente di Edison nell’intrecciarsi faticoso dei colpi che fanno schizzare la pallina da una parte all’altra del campo e la sua macchina da presa, senza mai prendere le distanze, registra e partecipa, tesse una fitta tela di traiettorie che legano Thomas al terreno di gioco. La macchina da presa ravvicinata di Reynaud diventa componente della scena sportiva, ripete il gesto atletico dietro il quale, ora sappiamo, vi è la vita fragile del campione, la dolorosa rassegnazione del declino, le proprie e altrui aspettative fallite. È la madre, vero sottofondo inevitabile per Thomas a segnare i temi di una sconfitta più antica e per questo ultimativa. Sarà lei a rilasciare la dichiarazione, che immediata rimbalza su ogni canale di comunicazione: Mio figlio non ha la mentalità del grande campione.
Il quinto set, smettendo di essere solo un film sul tennis, ammesso che lo sia mai stato, è, invece, il racconto di un calvario, dell’approdo conclusivo di un debole combattente, diventando un film sull’impervia invisibilità della fatica che non è mai solo quella fisica, laddove il corpo sa guarire cicatrizzando ferite, consolidando le fratture, ma piuttosto in quel faticoso procedere dentro gli accidenti e gli incidenti che incidono sull’animo, che obbligano alla riconsiderazione di se stessi, che rimettono in gioco affetti e amori trascurati, che riscrivono il futuro nel suo più lungo termine, quel futuro che sembrava vicino e tutto da costruire e che ora diventa incerto, invisibile e affidato, piuttosto, alla quotidiana ricostruzione di un altro se stesso, a sua volta tutto da rifare, in una chiusura di un tempo e nella necessaria invenzione di quello successivo. Un salto nel buio che fa paura, facendo mancare la terra (rossa) sotto i piedi. Thomas Edison in questo passaggio è da solo in quel frame spezzato dentro il quale si decide l’incrocio della sua vita.

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Titolo originale: Cinquième set
Regia: Quentin Reynaud
Interpreti: Alex Lutz, Ana Girardot, Kristine Scott Thomas, Jürgen Briand, Tariq Bettahar
Distribuzione: Netflix
Durata: 105′
Origine: Francia, 2020

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
3.24 (25 voti)

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