Gift, di Eiko Ishibashi e Ryūsuke Hamaguchi

Il progetto musicale da cui è nato Il male non esiste, non è “solo” un concerto: è un’estasi di suoni e immagini dove non esistono più barriere tra arti mai apparse così equivalenti. Dal Far East 2024

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Dalla musica al cinema. Dalla materialità delle immagini in movimento, all’astrattezza delle note musicali. Per Eiko Ishibashi sembra che non possa esistere l’una senza l’altra, quasi le due forme espressive perdessero, senza mai svalutare la propria singolarità estetica/linguistica, l’elemento distintivo che permette a chi guarda/ascolta di separarle, fino ad intrecciarsi reciprocamente in un connubio organico di suoni e inquadrature tale da creare per gli astanti un’esperienza sinestetica ed estatica. Del resto questo Gift non nasce semplicemente come un progetto musicale realizzato a quattro mani dalla compositrice e dal regista Ryūsuke Hamaguchi, ma è il prodotto embrionale da cui si è poi sviluppato Il male non esiste. E da questa prospettiva, ogni sua istanza è irrimediabilmente connaturata sia al linguaggio del cinema, che a quello della musica. Al punto da rappresentare un ponte ideale tra la poetica del filmmaker nipponico, e l’arte musicale di Ishibashi: uniti, adesso, sotto il segno di un testo-concerto che dialoga su più fronti. Celebrando, in simultanea, le varie ramificazioni in cui si suddivide una narrazione audiovisiva.

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In Gift, perciò, Ishibashi parte dalle immagini che Hamaguchi aveva concepito in funzione della partitura composta nel periodo post-Drive My Car dalla polistrumentista – e che poi entrambe sarebbero confluite, una volte estese, ne Il male non esiste – per dare vita ad un concerto sì musicale, ma da cui non è possibile scindere l’elemento cinematografico attorno a cui fa ruotare le sue tracce sonore. Le inquadrature dell’ultimo film del cineasta, nate, appunto, nel grembo di questo progetto multimediale, diventano nel corso della performance live dell’artista il corpo fisico su cui scorrono le fluenti note della composizione. Ed Ishibashi, impegnata a suonare i suoi (tanti) strumenti ai lati del palcoscenico, appare il demiurgo del concerto, e al tempo stesso una sua mera comparsa. Perché ciò che conta nell’esibizione, l’elemento che deve dominare lo spettacolo dal vivo, è il cortometraggio proiettato sul grande schermo: che non solo occupa, nel contesto di una sala, la posizione centrale e primigenia, ma sembra oscurare, con la sua luce, la figura stessa della musicista: la cui performance riesce comunque a diventare la portata principale, proprio perché vota tutte le sue istanze e finalità alla celebrazione della settima arte.

Chi poi ha già visto Il male non esiste, di cui buona parte delle inquadrature sono presenti in questo corto, si interfaccerà senza dubbio con una sensazione anomala, e nel contempo naturale. Perché se la storia raccontata dal cortometraggio è sovrapponibile a quella dell’ultimo film del regista, al tempo stesso però il lungometraggio sembra innervarsi di prospettive e sensibilità inedite: a causa sia dalla sua natura di prodotto muto – quindi privo di dialoghi e di effetti diegetici – ma soprattutto per mezzo delle diverse sonorità con cui Ishibashi, ai lati del palcoscenico, avvolge le immagini sullo schermo. Al punto che Il male non esiste, e per estensione la poetica tout court di Ryūsuke Hamaguchi, vengono omaggiati attraverso una loro rilettura in termini musicali – e quindi personali – da parte di colei che ormai rappresenta non solo un collaboratore essenziale del cineasta giapponese, ma ne raffigura – e Gift è l’esempio – il suo vero ed unico co-autore.

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È in questo modo che la controparte visiva del progetto può confluire, senza soluzione di continuità, in quella più apertamente musicale. Proprio perché non esistono barriere né confini tra arti estetiche all’interno di una performance linguisticamente “onnivora” come quella qui codificata dalla musicista. Poi certo, a differenza di un film-concerto come Ryūichi Sakamoto: Opus, Gift non offre agli astanti un’esperienza deliberatamente immersiva. E il motivo è da ritrovare nella volontà di Ishibashi non di mettere a nudo la sua interiorità – come invece capitava al leggendario compositore nel suo lungometraggio d’addio – ma di restituire vitalità ad una collaborazione artistica che nasce e si nutre a partire da una convergenza di linguaggi. Che nello scorrere delle note sul palcoscenico (e sullo schermo) offrono un tributo significativo al potere immaginifico dell’arte audiovisiva per eccellenza: appunto, il cinema.

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