Ryuichi Sakamoto: Opus, di Neo Sora

Se in Coda a contare erano le fasi del processo creativo del maestro, qui c’è la pura potenza del gesto artistico. Un film-concerto magico che ci lascia in preda all’estasi. VENEZIA80. Fuori Concorso.

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Proiezione NEXT MORNING al Tertio Millennio Film Festival - Una produzione Sentieri selvaggi

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Un musicista e il suo pianoforte. Un uomo e il prolungamento stesso della sua espressione vitale. Questi due fattori, presi singolarmente, possono dare vita ad un campionario infinito di idee, emozioni, vissuti. Ma se uniti, raccontano una storia più precisa, personale, che rende conto non solo della personalità di chi suona lo strumento, ma dell’approccio che l’artista stesso ha alla sua musica, all’arte, allo spazio che lo circonda. È seguendo questa direttrice che in Ryuichi Sakamoto: Opus il figlio del geniale musicista scomparso, Neo Sora, mette in scena un confronto simbiotico tra il padre e il suo elegante pianoforte Yamaha, dando vita ad un film-concerto che incorpora nelle sue strategie (estetiche, comunicative, e anti-narrative) l’essenza della visionarietà musicale di Sakamoto, e la sua abilità innata a penetrare nella sfera dei sentimenti di chi lo ascolta. Materializzata qui attraverso la sola potenza del gesto artistico.

Filmato nel dicembre dello scorso anno, nel periodo più acuto della malattia del maestro, Ryuichi Sakamoto: Opus appare tanto semplice nell’impostazione, quanto complesso e stratificato nell’esecuzione. I venti pezzi selezionati accuratamente da Sakamoto e intervallati da brevi pause o capogiri improvvisi dovuti alla condizione clinica del compositore, ci suggeriscono sin dalla primissima nota che ciò a cui stiamo assistendo non è una mera “performance”: è la visione di un uomo che mette a nudo il suo mondo interiore, che non è “solo” il serbatoio in cui fa fermentare le idee musicali ancora acerbe, ma è il sito delle sue fragilità più recondite. E lo fa attraverso la sola cosa con cui si è sempre raccontato: la musica. Se nel memorabile documentario Coda a contare era il percorso con cui arrivava alla sublimazione del suo processo creativo, qui invece esiste solo l’esecuzione artistica. Cioè il punto di convergenza tra il risultato della creazione e l’inizio del rapporto sinestetico con il pubblico.

Quel che sorprende dell’approccio di Neo Sora è la sua capacità quasi immediata di capitalizzare il potere comunicativo che la musica del padre ha sempre avuto sugli spettatori/uditori sin dai tempi della Yellow Magic Orchestra. Per cento minuti Ryuichi Sakamoto: Opus ci accarezza infatti con la rarefazione ritmica della musica, per immergerci fino al collo in un mondo che smette di funzionare per quel che è, ed inizia ad operare secondo un senso della temporalità perlopiù personale e irripetibile. Tanto che il film procede per accumulo, tra pezzi più enfatici – le partiture per Wuthering Heights o Il tè nel deserto – e composizioni minimaliste, fino a che tutto esplode sulle note di Merry Christmas, Mr. Lawrence, il film che – non a caso – ha decretato nel 1983 la consacrazione cinematografica del maestro. Ma l’immagine più potente cade proprio sul finale: qui il corpo dell’artista lascia improvvisamente posto ad uno spazio vuoto, con il pianoforte che suona in completa autonomia. Una visione potente, quasi straziante, che ci rende conto di una verità dolorosa e al tempo stesso lenitiva. Perché Sakamoto-uomo è sì scomparso. Ma la sua musica sopravvive, e sarà sempre lì pronta a stregarci. Ogni volta che la incontreremo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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