FILM IN TV: ;Pasqualino Settebellezze; di Lina Wertmeuller

Pasqualino "Settefferatezze" è una durissima e potente riflessione tragico-farsesca su dignità, violenza, responsabilità. Con un Giannini al top nella discesa regressiva "in progress" dentro una muta attoriale di esasperata animalità, bagnata da echi ferreriani e del pasoliniano "Salò" nel rapporto eros-thanatos/cibo-sesso. Martedì 27 ore 01.30 Rete 4

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Pochi, forse, hanno notato che Benigni ne La vita è bella ha trattato il lager con toni inusuali, sebbene più ammorbiti, che è impossibile non collegare per via ereditaria a quelli adottati dalla Wertmüller in Pasqualino settebellezze. E già questa nota può dare l’idea della portata emozionale di una delle opere maggiori della provocatoria regista inforcante perpetui occhiali con montatura bianca, capace qui di portare ad incandescenza il ritrattismo “sbilanciato” di cui è raffinata esponente nel cinema italiano dei 60-70. Il film si apre con il sound di Jannacci (il quale domina nei pochi momenti di accompagnamento musicale, con bella aderenza al clima grottesco-farsesco-barocco) che punteggia in “armonioso contrasto” (in sincronia perfetta il “bum” del cantautore con un’esplosione!) immagini di repertorio su bombardamenti della 2° guerra mondiale, Hitler e Mussolini con la canzone “Quelli che…” e, in chiusura, con “Tira a campar” sul bellissimo e primissimo piano (esaltato dalla fotografia forzuta di Tonino delli Colli) dell’attore-feticcio wertmülleriano Giancarlo Giannini, tagliato obliquamente da una “lama d’ombra” a simboleggiare la scissione del suo io (scissione che si è piegato ad accettare) e che non potra più ricomporre per cercare di riavvicinarsi al Pasqualino d’apertura il quale è, sostanzialmente, uno sbruffone, un pallone gonfiato al quale capita la sventura che gli sfugga accidentalmente un colpo dalla pistola puntata contro il pingue amante di una delle sue sette, antifrastiche, sorelle: da questo momento il suo destino morale è già irrimediabilmente segnato. Il Male, infatti, assume sempre più, man mano che si procede, la valenza psicanalitica ed ineluttabile di unica via per la sopravvivenza, pregnanza diabolica resa ancora più terribile dalla diffusa convinzione che nulla sarebbe cambiato. E il “sono vivo” che, soddisfatto, pronuncia in chiusura il protagonista sugella questa certezza idelogica. Notevole “l’animalità esasperata” che, progressivamente, Giannini riesce a esprimere, in particolare nella scena dell’approccio sessuale alla comandante nazista (“remake” visivo e sessuale, ad un anno di distanza, dell’altrettanto perversa Maria Antonietta Belluzzi, tabaccaia-pedofila di Amarcord) dove, mangiando nella ciotola “canina” (i crauti e i wurstel contenuti sono divorati per terra, a quattro zampe dall’attore) innesta il binomio cibo-sesso che, Ferreri e Pasolini docent, è inscindibile da quello eros-thanatos.

In quest’ultima scena un’ossessiva luce verde taglia la stanza quasi a simboleggiare l’alienamento che domina la sequenza (chi non ricorda, a questo punto, il celeberrimo neon hitchcockiano sul volto della Novak in Vertigo?). In quello che, forse è il film più spietato della Wertmüller tutti si prostituiscono: prima la sorella-prostituta-cabarettista, poi Pasqualino al processo fingendosi (“vendendosi come”) infermo mentale e offrendosi alla comandante/stupratrice del campo di concentramento, così pure le restanti “seibellezze” con i soldati stranieri e anche la ragazzina, diventata donna alla fine del film (prostituitasi ma fedele nell’amore per lui), che Pasqualino accetta di sposare (dimenticandosi il “principio d’onore” della verginità femminile, perché la prostituzione è dappertutto appunto…). Efficace la sintesi dei timori fascisti verso il potere del popolo racchiusa nella breve suquenza in cui Giannini, condannato a 12 anni di manicomio criminale, incontra un socialista condannato a 18 perché incapace di tacere sulle proprie idee politiche (disprezzo del fascismo per la morte, per l’omicidio e timore, invece, per la potenza di diffusione della parola). Tra i tocchi surreali indimenticabile il suicidio nella vasca piena di escrementi umani del (non a caso) attore buñueliano Fernando Rey che, per mantenere la propria dignità di uomo (una delle tante, inquietanti contraddizione su cui la Wertmüller costruisce lo scheletro dell’opera), si uccide con un elemento non propriamente dignitoso. Il successo mondiale, compresi quello in Usa, fece guadagnare alla regista romana quattro nomination all’Oscar e, se non vinse nulla, entrò comunque nella storia del cinema come primo director donna ad essere candidato per la regia. Un’altra curiosità: tra i pazzi del manicomio si riconosce uno dei quattro carnefici fascisti di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, capolavoro maledetto per eccellenza, coevo e non estraneo nelle atmosfere, negli umori e nei temi a Pasqualino Settebellezze.

 

PASQUALINO SETTEBELLEZZE di Lina Wertmüller con Giancarlo Giannini, Fernando Rey, Elena Fiore, Shirley Stoler, Roberto Herlitzka, Piero di Iorio
Italia, 1975 (115′) Martedì 27 settembre, ore 01.30 Rete 4

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