“Lunedì mattina” di Otar Iosseliani

Tra Tati e René Clair, uno spostamento itinerante per rompere la normale struttura meccanicistica della società. Percorsi continui dello sguardo, alla ricerca della libertà

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Mai come di questi tempi sentiamo un bisogno forte, irrevocabile, per certi versi non-più-rimandabile. Il bisogno di fare i conti con il nostro sguardo, con il nostro modo di sentire la realtà, con la volontà insita nel solo atto del vedere di instaurare un’ermeneutica dello sguardo che sappia tradurre il reale. O che perlomeno si avvicini al punto di non ritorno della visione. Non si tratta di un semplice rispecchiamento dell’occhio nell’essere della forma, ma di un ben più estremo tentativo: quello di raggruppare sotto un profilo unitario le tante schegge di senso intrappolate all’interno del divenire. E con esse, le loro ombre, le loro fisionomie sfuggenti ad ogni classificazione sclerotizzata dell’apparenza. Iosseliani lo fa. Lavora sull’epifania della materia quale disvelamento improvviso di un essere che non avremmo mai sospettato. Filma il divenire della forma per cristallizzarlo poi in radiografia antropologica dell’uomo, del suo sguardo, del suo modo di partecipare al grande rituale della rappresentazione. Del suo esser(ci)e insomma. Per farlo, non può che ripartire dal lunedì mattina. Tappa inaugurale di una settima lavorativa, di una settimana dedicata alla famiglia, di un arco di tempo in cui rincorrere l’ombra del proprio sé sotto forma di fantasma sociale in preda al raptus della sopravvivenza. Il suo protagonista è un operaio, di quelli tutta casa e famiglia per intenderci. Lavora in una grossa fabbrica di materiali chimici, fuma come un dannato, tranne, suo malgrado, quando lavora. La moglie è una donna dai tratti mascolini, sembra dominarlo solo con la sua presenza. I figli poi non lo considerano più di tanto. Sono troppo impegnati con le loro occupazioni, con il loro lavoro, con il loro posto nella gerarchia verticistica della famiglia. Recitano una parte, ne sono recitati, è quanto basta per essere subito identificati e schedati quali normali cittadini, appartenenti all’universo reale/filmico della stabilità, del non cambiamento. Il problema di Vincent (è questo il suo nome) è di porsi un problema. Di voler sfuggire alle strettoie di un incasellamento familiare/lavorativo in cui forse non si è mai riconosciuto. Di sottrarsi al grande equivoco della rispettabilità quando la posta in gioco è bel altra. Non si tratta più di partecipare, ma di fuggire, lasciandosi alle spalle tutto. Eppure a Iosseliani non interessa marcare troppo il momento del distacco, rispetto a quello dedicato alla famiglia e al lavoro. Sono due sezioni di un stesso vivere assolutamente conciliabili. Non ci parlano di vita, di cinema, di libertà. Ci parlano di occupazione forzata in un meccanicità dai tratti omologanti e mortiferi. Nella prime sequenze del lavoro in fabbrica, c’è ancora un referente. Potremmo nominare Tatì, ma anche il Clair di “A nous la libertè”. Si tratta per il momento di immagini capaci di contemplare l’esterno della citazione. Poi Vincent fugge per il mondo, arriva a Venezia. Lo spostamento è appena percettibile, eppure, è di quelli capaci di terremotare l’assetto stesso della visione, riconfigurando nuovamente uno scenario di perdita. Perdita di un orizzonte vagamente familiare, perdita di un abitudine introvabile, perdita della dimensioni di un proprio agire. Si giunge così nei lidi oscuri e poco abitati dell’altrove. Configurazione a/utopica del proprio io, o spiazzante divagazione corporea tradottasi in falso movimento? Entrambe le cose probabilmente. E forse qualcosa di più. Quello che ci si presenta davanti agli occhi è il regno della possibilità filmica immortalata in perenne movimento a zonzo (ricordate Deleuze?) di un corpo incapace di essere contenuto nei limiti di una sola inquadratura, ripreso nei margini stretti di una sola sequenza. Iosseliani, come il suo protagonista, riscopre il vagabondaggio quale unica possibilità di essere rispetto alla perentorietà fatalistica di un meccanismo interrotto, convertendo così la traccia caustica della delocalizzazione, in orizzonte ludico di spostamento. Non importa l’itinerario seguito da Vincent, non importano le persone che incontra nel suo cammino, non importa infine il reale motivo del suo viaggio. Ciò che conta è l’aver prodotto un atto di deliberata coscienza di sé quale essere in grado di sublimarsi attraverso il tempo della perdita. Iosselliani ha filmato questo tempo, lo ha accarezzato con un totale azzeramento del realismo filmico. Lo ha infine interrotto facendo rientrare Vincent alla “normalità”. Il grande gioco di società della vita può riprendere. Manca ancora una pedina però. Quella della libertà.

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Titolo originale: Lundì matin
Regia: Otar Iosseliani
Sceneggiatura: Otar Iosseliani
Fotografia: William Lubtchansky
Montaggio: Otar Iosseliani
Suono: Jerome Thiault
Scenografie: Manu De Chauvigny
Costumi: Cori D’Ambrogio
Interpreti: Jacques Bidou (Vincent), Anne Kravz-Tarnavsky (Josephine), Dato Tarielashvili-Iosseliani (Nicolas), Narda Blanchett (Madre di Vincent), Radslav Kinky (padre di Vincent) Adrien Pachod (Gaston), Pascal Chanal (Michel), Myriam Laidouni-Denis (Odile), Arrigo Mozzo (Carlo), Nicoletta Prevedello (Moglie di Carlo), Angelo Ragazzi (Paolo), Giorgio Danieletto (Luciano), Otar Iosseliani (Enzo Di Martino)
Produzione: Martine Marignac, Maurice Tinchant, Roberto Cicutto e Luigi Musini in collaborazione con RAI CINEMA
Distribuzione: Mikado
Durata: 122’
Origine: Francia, 2001

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