Jim Carrey: io, me e il cinema

Jim Carrey è il fantasma ambulante di un corpo introvabile, come ci insegna peraltro nell'ultimo “Una settimana da Dio” (in uscita venerdì nelle sale), in cui fa e rifà il corso degli eventi, continuando a contaminare inserti di puro godimento buffonesco, con ritagli impossibili di vita colta quando meno te lo aspetti.

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La lacrima che scende dal volto truccato del pagliaccio è smascheramento, esibizione, tragedia di una personalità rivelata nell'ultimo modo possibile. L'effetto è catartico, non c'è dubbio, ma prima ancora de-stabilizzante, se non altro per trovarsi di fronte ad un oggetto nudo, asciugato di ogni artificialità aggiuntiva. Sarebbe interessante provare a studiare la geografia impazzita del volto di Jim Carrey. Un clown, un pagliaccio, un artista. Ma non solo. Un'infinita lacrima malinconica che non si vergogna di scendere quando non dovrebbe, che i conti con il sistema che l'ha prodotta, li ha già fatti da un pezzo. E' difficile analizzare l'infilmabile, o comunque la rincorsa disperata di un corpo ai margini del cerchio, nelle periferie buie del fuoricampo. Ci proviamo lo stesso.

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Carrey nasce nel gennaio del 1962 a NewMarket, vicino a Toronto. Il Canada è stata la sua terra natale. Paesaggi da brivido, temperature glaciali, ma ambiente cittadino caldo e accogliente. Come la sua famiglia d'altronde. Ultimo di quattro fratelli James (il suo vero nome), il classico ultimogenito con qualche grillo per la testa e tanta voglia di dimostrare qualcosa tutti. Certo è che la sua infanzia e adolescenza non smentiscono nemmeno per un attimo la natura irriverente e sottilmente iconoclasta che ha rappresentato in questi anni. A scuola era la dannazione di tutto il personale docente, in casa se si può, anche peggio. Cos'è che tormentava il piccolo James tanto da non farlo stare fermo nemmeno un attimo? Semplice e se vogliamo, scontato. Tanta voglia di recitare, di mettersi in scena, di esprimere con il corpo e con la voce tutto quello che aveva dentro. Ecco allora le classiche recite scolastiche, le prime esibizioni e la coscienza maturata di giorno in giorno di voler continuare recitare. Poi il trasferimento a Scarborough dove Jim (chiamiamolo così) e i suoi fratelli furono assunti come custodi in un'industria metalmeccanica. Diverse ore di lavoro al giorno, salario da fame, convinzione di voler fare un salto di qualità. Ecco allora che Carrey, tornato nel frattempo a Toronto, comincia ad esibirsi in un locale, lo Yuk's yuk's. I suoi esordi sono un fiasco, il pubblico non pare capire la natura della sua comicità, ma poco importa. Le esibizioni continuano e con queste i suoi primissimi film di serie B, ignorati all'epoca dell'uscita dalla maggior parte del pubblico. Fermiamoci un attimo. La propria storia, la propria biografia non può non condizionare certe scelte che si faranno poi col passare degli anni. Per Jim vale questo discorso, e in modo addirittura particolare. La sua è stata una lunga gavetta, ma soprattutto un tirocinio artistico che ha visto la luce del sole solo qualche anno fa. Sbilanciamoci ancora un pochino e diciamo pure che Carrey la gavetta non l'ha mai abbandonata. Smussata magari, modificata in certe sue parti, ma il suo è un lavoro in continuo progress, sganciato da qualsivoglia punto d'arrivo. Oggi, come d'altronde ieri. Vediamo dunque come sono stati i suoi esordi.

Timidi, un po' impacciati, per certi versi sfortunati. Il treno più pazzo del mondo (1984) di Lester non è stato un film memorabile, come d'altronde nemmeno Se ti mordo, sei mio (1985) di Howard Storm.. Eppure il cinema d'autore è già dietro l'angolo. Prima ci fu Coppola col suo straordinario Peggy Sue si è sposata (1986), poi Julien Temple con Le ragazze della terra sono facili (1988). Si tratta della prima parte importante di Carrey e si risolve in un gustoso divertissement nemmeno troppo spensierato su tre extraterrestri (Carrey è uno dei tre) che si trovano ad avere a che fare con le abitudini dei terrestri. L'opera è molto interessante, Carrey è divertente, e tanto basta per dargli la possibilità di avere per la prima volta una parte da protagonista. L'opera è Ace Ventura(1994) di Tom Shadyac ed è qualcosa di difficilmente analizzabile. E' caricatura, sberleffo, variazione impazzita su una sottotrama di genere (quello "giallo" per intenderci). Si chiama Ace Ventura, ma si dice Jim Carrey. Regista di se stesso, demiurgo folle di una corporeità schizofrenica e vagamente schizzata in procinto di sublimarsi in atto osceno e gratuito, sopra le righe, volutamente esagerato. Lo hanno capito in pochi (parliamo dei critici naturalmente), ma il pubblico lo ha subito adorato, riversandosi in massa nelle sale. Scemo e più scemo è dello stesso anno (1994), ma non si possono immaginare due film più diversi. Tanto sconclusionato, fragile, irrisolto il primo, tanto folle ed eversivo il secondo. Poco da sorprendersi, visto che alla regia pensarono i fratelli Farrelly che paiono condividere con Carrey lo stesso gusto sottilmente irriverente e politico nel non dare mai al pubblico ciò che ci si potrebbe aspettare. I benpensanti ulularono di fronte alla de-mitizzazione del corpo condotta da Carrey, ma non c'è da meravigliarsi troppo. "Scemo e più scemo è un'opera volgare senza un senso e Carrey è un giullare che ha visto troppi film di Lewis senza coglierne la reale sostanza". Molto comodo. La realtà delle cose è un'altra. I Farrelly fanno un cinema del corpo in continuo contrasto con le leggi istituzionalizzate ed omologanti di qualsivoglia sistema. E Carrey fa decisamente al caso loro. Il suo è un corpo smontabile, rimontabile, a seconda della visione, e soprattutto a seconda dello sguardo che vi si imbatte. Il paragone con Lewis ci sta tutto, ma bisogna stare attenti a non generalizzare troppo.

Nomen-omen per The mask (film del talentuoso Russell) in cui Carrey perfezione in modo sempre più smagliante la propria gamma espressiva, sino ad arrivare alla sublimazione più alta trasformandosi quasi in un cartoon. L'opera di Russell è divertente, vivace, ben scritta, ma niente di più. Dopo un ruolo secondario in Batman forever (1995), due piccoli, ma importanti accenni della ennesima mutazione che sarebbe giunta da lì a poco, Il rompiscatole (1996) e Bugiardo, bugiardo (1997). Carrey produce danni, si atteggia in smorfie di profonda ir-riconciliazione con il set che lo ospita, incomincia dunque in una vera e propria opera di demolizione che avrà luogo per intero solo in The Truman Show (1998) di Peter Weir. E allora: The Truman Show – Man on the moon – The Majestic. In mezzo c'è Io, me e Irene (2000) dei Farrelly (per inciso il loro film migliore), ma concentriamoci su questo trittico. Si tratta di immolarsi all'altare della riproduzione effettistica di un certo vissuto. In questo le tre opere sono stranamente unite. Nel film di Weir si tratta di un corpo dentro/fuori alla finzione, in Man on the moon di una corporeità ri-prodotta fuori tempo massimo (è la biografia del grande Andy Kaufman), nell'ultimo The Majestic di Darabont di un corpo andato a trovare laddove lo Spettacolo non può arrivare. Jim Carrey è il fantasma ambulante di un corpo introvabile, come ci insegna peraltro nell'ultimo Una settimana da Dio, in cui, diretto da una sua vecchia conoscenza (si tratta di quel Tom Shadyac con il quale aveva già girato Ace Ventura) fa e rifà il corso degli eventi (da uomo a Dio e viceversa), continuando a contaminare inserti di puro godimento buffonesco, con ritagli impossibili di vita colta quando meno te lo aspetti. Lontana da ogni tipo di attesa nella ricezione sfalsata del pubblico di Truman Show, immersa nel tonitruante meccanismo mortale della produzione nel film di Forman, ma pronta a ritagliarsi punti di fuga importanti, coinvolta (già, la vita/Carrey) infine emotivamente in una storia non sua, in un racconto mai scritto, in The Majestic. Non si tratta nemmeno più di interpretare un ruolo. Si tratta di agirlo, funzionando da molla centripeta che scaraventi il nostro occhio al di là del visibile. Come succede nella storia di Kaufman, un racconto di doppi, una fitta tessitura di possibilità che sono poi in fin di conti Spettacolo. Ma come accade anche nel grande show di Truman, il regno dell'imprevisto c'è, esiste, sta appena dietro l'angolo. Per trovarlo, e torniamo a The Majestic, bisogna avere il coraggio di uscire fuori di sé, reinventarsi un senso dell'agire, una motivazione all'esserci. Quando nel film di Darabont Carrey piange per un uomo che non è suo padre, la magia è avvenuta. La smorfia beffarda c'è ancora, ma non si vede. Sepolta dalla coscienza dell'annullarsi in una storia che solo adesso comincia ad appartenerci.

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