"È già ieri" di Giulio Manfredonia
Spoglia ripetizione del lieve “Ricomincio da capo”, l'ultima opera di Giulio Manfredonia riavvolge le lancette di una storia dove il tempo della narrazione risultava già “loopato” a priori, estendendone la portata referenziale oltre i confini fisiologici della pellicola.
Gli esiti innegabilmente controversi che accompagnano l'ultima prova cinematografica di Giulio Manfredonia non bastano ad oscurare l'interessante situazionismo di un'operazione programmatica sin dai propri antecedenti: spoglia ripetizione del brioso Ricomincio da capo (1993) di Harold Ramis, il film finisce infatti per riavvolgere le lancette di una storia dove il tempo della narrazione risultava già "loopato" a priori, estendendone la portata referenziale oltre i confini fisiologici della pellicola.
È già ieri racconta la vicenda paradossale dell'ennesimo replicante (chiamato a riprodurre Bill Murray e sè stesso, lo dimostra l'immancabile autoreferenzialità di Antonio Albanese) incapace di qualsiasi slancio empatico tanto nei confronti degli esseri umani quanto verso gli animali, oggetto indesiderato del suo mestiere. Come documentarista per un programma televisivo, tende a manipolare la realtà anzichè trasportarla oggettivamente sullo schermo; finge di continuo per sottrarsi a un'esistenza cinica e spoglia, sicuramente solitaria. Come nelle favole, l'evento sovrannaturale porta però scompiglio nella vita del ranocchio, volto a diventare il principe azzurro con l'intervento del deus ex machina di turno.
Dopo una giornata nera all'insegna dell'insofferenza e dell'apatia, l'odiato presentatore di uno squallido talk show sarà infatti costretto a rivivere il medesimo 13 agosto per oltre due anni: sintomatologie tipiche del quarantenne tutto lavoro e niente vita personale, malato di una quotidianità sempre immobile.
L'elemento finzionale innesca comunque una riabilitazione menzognera perchè intenzionale, mica spontanea; superato lo sconcerto iniziale, l'antieroe trova finalmente i vantaggi di una situazione surreale dove può entrare nella vita privata di ognuno, a patto di restarci solo 24 ore. Investiga i desideri di ciascuna preda la sera prima, per poi trasformarsi nell'incarnazione dei loro sogni la mattina successiva. E portarsele a letto.
L'adattamento firmato dal regista con Valentina Capecci e Andrès Koppel trascura tuttavia l'indagine psicologica del personaggio assumendone per scontata la riabilitazione finale: mentre nell'opera precedente l'amore discendeva dalla scoperta dell'altro, qui l'improvviso cambio di rotta del protagonista rappresenta il risultato di un calcolo premeditato, come se Filippo conoscesse già la sceneggiatura originale di Danny Rubin e intendesse applicarla astutamente per conquistare la più bella del villaggio. Caso raro di onniscienza narrativa che coinvolge indifferentemente gli autori, il pubblico e le figure del racconto in una tacita intesa.
L'elegia della finta-bontà quale valore biecamente strumentale appare allora l'unico contributo rilevante di un'opera destinata a reiterarsi ancora per molto nelle sale italiane, visti i tempi che corrono.
Regia: Giulio Manfredonia
Sceneggiatura: Danny Rubin, Harold Ramis, Valentina Capecci, Giulio Manfredonia, Andrès Koppel
Fotografia: Roberto Forza
Montaggio: Roberto Martucci
Musiche: Mario De Benito
Scenografia: Carlos Bodelon
Costumi: Lia Francesca Morandini
Interpreti: Antonio Albanese (Filippo), Fabio De Luigi (Enrico), Goya Toledo (Rita), Pepon Nieto (Bob), Jacobo Dicenta (tassista), Beatriz Rico (Candela), Ester Ortega (Marta), Asuncion Balaguer (Rosa)
Produzione: Marco Chimenez, Giovanni Stabilini, Riccardo Tozzi per Cattleya
Distribuzione: Columbia Tristar Films Italia
Durata: 99'
Origine: Italia/Spagna, 2003