#Venezia 72 – Tharlo, di Pema Tseden

Un film fatto di spostamenti e ritorni, alla ricerca di un’identità che viene continuamente a mancare.

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Tharlo, soprannominato treccia per via dell’acconciatura, è un pastore tibetano che ha vissuto per tutta la vita tra le montagne, senza conoscere neppure la propria esatta data di nascita. Sceso in città per ottenere finalmente la sua prima carta di identità, conosce una giovane parrucchiera che sembra essersi innamorata di lui; ma ben presto imparerà a conoscere gli inganni e la perfidia che si nascondono nel mondo che si estende oltre i propri luoghi di nascita. Da un racconto dello stesso regista, Tharlo di Pema Tseden è un film che immerge lo spettatore nell’universo del protagonista: girato in un bianco e nero dai contrasti profondi e completamente privo di movimenti di macchina (ogni scena è un piccolo piano sequenza), sembra rispecchiare l’animo puro e semplice di un pastore che vede il mondo per la prima volta.
Il film di Tseden si rivela allora come un viaggio attraverso la ricerca di un’identità che viene continuamente a mancare: Tharlo è una persona cristallina che conosce a memoria Al servizio del popolo di Mao Tse-tung, senza averne mai appreso i significati profondi e limitandosi a un’interpretazione superficiale delle parole di quella che considera alla stregua di una vera e propria guida spirituale. Vorrebbe che la sua morte possa avere più peso del monte Tai, anziché essere leggera come una piuma, eppure le circostanze lo porteranno a registrare il fallimento della propria esistenza e dei propri valori.
Non è un mistero quindi che Tharlo si palesi abbastanza facilmente come una riflessione sulla condizione della società cinese, messa in scena da un autore tibetano che conosce bene le restrizioni e le repressioni alle quali è costretto il suo popolo. La metafora è fin troppo scoperta (basti pensare al leit motif del documento di identità, richiesto e negato più volte nel corso della narrazione), eppure si ha la sensazione che il film riesca ugualmente a dimostrare un respiro ampissimo e tutt’altro che dimesso, in netto contrasto con quella rigidità visiva che la regia rigorosissima di Pema Tseden è in grado di gestire alla perfezione.
Un film fatto di continui spostamenti e ritorni, perennemente alla ricerca di un significato che non può in alcun modo essere imbrigliato dentro quella prigione fatta di inquadrature immobili e simmetrie interne, in un bianco e nero che sembra amplificare il manicheismo rappresentato dagli oppressi e dagli oppressori. Non è un caso, allora, che l’unico momento in cui il romanticismo sembri trovare una via di fuga dall’oppressione sia in quel timido bacio tra i due protagonisti, lasciato fuori campo.

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