Barbie, di Greta Gerwig

Strizza l’occhio alla pop culture e prosegue con l’empowerment femminista, ma la ridondanza rischia di oscurare la sua protagonista. Quando la metafora è più scoperta, si gioca le carte migliori.

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I’m a Barbie girl, in the Barbie world,

 

Life in plastic, it’s fantastic!

Dopo quasi un anno di campagna promozionale da budget milionario, tra poster pubblicitari, teaser trailer, red carpet e caroselli di luccicanti outfit ispirati alla celeberrima fashion doll, che hanno spinto l’hype a livelli altissimi, l’attesissimo Barbie di Greta Gerwig arriva oggi nelle sale di tutto il mondo, accompagnato da una vera e propria ondata di Barbie (retro)mania, con collezioni Zara ad hoc, sfilate fucsia alle anteprime stampa e rosee pagine di Google. L’aspettativa era tale da gonfiarne a dismisura il potenziale. Il film, così come la bambola nata dalla fantasia di Ruth Hendler e portata al successo dalla Mattel, poteva essere qualsiasi cosa. Scritto a quattro mani da Greta Gerwig col marito Noah Baumbach, si tratta certamente di un’operazione spuria – un blockbuster scritto e diretto da due registi indipendenti – ma che, almeno in fase di scrittura, non si discosta poi molto dai bla bla movies che fanno capo al Woody Allen di prima maniera, di cui soprattutto Baumbach è esponente (il monologo di America Ferrera fa il paio con quello di Laura Dern in Storia di un matrimonio). E non stupisce nemmeno che Gerwig abbia scelto di proseguire sulla scia dell’empowerment femminista di cui i suoi film, a partire dagli ultimi Lady Bird e Piccole donne, sono sempre stati grandi o piccoli testimoni.

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Come nei giochi di bambine, Barbie è protagonista indiscussa del suo stesso universo, Barbieland, abitato da innumerevoli varianti del canone, Barbie Presidente, Barbie premio Nobel per la Fisica, Barbie Sirena, Barbie Dottoressa, Barbie Avvocata. Un mondo plastico e perfetto in cui Ken – o meglio, i Ken – è del tutto marginale, accessorio, come un abito o un paio di scarpe – rigorosamente tacco 12 che si adatta a piedi curvilinei che toccano terra solo con le punte – eterno wannabe fidanzato della platinata fashion doll, che implora di essere guardato per legittimare la propria esistenza. Ed è proprio a Ken-Ryan Gosling (e compagni) che spetta il ruolo di massimo intrattenimento, con derive comico-demenziali che fanno eco al Ben Stiller di Zoolander, ripreso iconograficamente da pelliccia, fascetta e autocompiaciute pose plastiche. E Gerwig, grazie all’imponente lavoro del reparto fotografia capitanato da Rodrigo Prieto e dalle scenografie di Sarah Greenwood, ricostruisce quell’immaginario camp che ogni millenials ha sognato di abitare, e i cui riferimenti cinematografici vanno dalle casette di cartongesso di The Truman Show ai colori pastello di Edward mani di forbice fino alla ricostruzione di un neighborood che sembra ricalcare quello di Don’t Worry Darling. Gerwig mutua dal cinema anni ‘90 l’intero impianto narrativo (l’ingresso nel mondo reale per aggiustare quello fantastico, e ricondurlo alla perfezione – e la cui risoluzione, neanche a dirlo, si deve al personaggio fuori canone, esiliato, estromesso), che strizza l’occhio alla pop culture, tra easter eggs e citazioni meta cinematografiche (nulla a che vedere, tuttavia, con la Marie Antoinette di Sofia Coppola), a fronte di una colonna sonora esile, che manca totalmente di hit anni ‘80 e ‘90, se non per un accenno di Spice Girls e un remix di Barbie Girl degli Aqua (contro la quale nel ‘97 la Mattel – tra i produttori del film – ha intentato una causa legale) firmato da Nicki Minaj e Ice Spice.

Eppure, a conti fatti, Barbie non sembra riuscire mai fino in fondo a trovare una propria identità, scivolando tra musical e metacinema (la voce fuori campo che rompe la quarta parete), live action e film demenziale, omaggio (la presenza fantasmatica di Ruth Handler), celebrazione dell’infanzia e dissacrazione dell’immaginario – anche cinematografico – maschile, in una ridondanza di intenti fin troppo espliciti, la cui protagonista, bloccata nel ruolo di rinnovata femminista, rischia di essere messa in ombra da una spalla meravigliosamente sopra le righe, patetica, grossolana, grottesca, che attraversa l’arco di trasformazione più completo e interessante. Insomma, anche Gerwig fatica nel risolvere quella contraddizione insita nello stereotipo della bambola Mattel, di icona femminile di autodeterminazione contrapposta ad “un ideale di corpo femminile irrealizzabile e un comportamento consumista e anarco-capitalista”. Certo, non mancano gli statement da manuale e le critiche, affidate alla giovane Sasha, rappresentante consapevole della Gen Z, ma restano sempre in superficie, perdendosi in prolissi fiumi dialogici. È allora nella metafora scoperta che Barbie gioca le sue carte migliori, in cui empowerment e battaglia anti patriarcato trovano la loro definizione. In quella demenzialità tutta maschile che raggiunge l’apice negli intervalli musical, a cui si deve probabilmente la riflessione più sottile e incisiva del film: una vita di bionda fragilità.

 

Titolo originale: id.
Regia: Greta Gerwig

Interpreti: Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Kate McKinnon, Ariana Greenblatt, Emma Mackey, Michael Cera, Simu Liu, Will Ferrell, Ncuti Gatwa, Connor Swindells, Dua Lipa, John Cena, Alexandra Shipp, Ritu Arya, Nicola Coughlan
Voce narrante: Helen Mirren

Distribuzione: Warner Bros
Durata: 114′
Origine: USA, UK, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2
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Il voto dei lettori
2.42 (36 voti)
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