#Berlinale2016 – Saint amour, di Benoît Delépine e Gustave Kervern
Sgangherato, rozzo, ma carico di una nuova umanità. La coppia di registi francesi dirigono Gérard Depardieu e Benoît Poelvoorde in un’amara commedia carica di selvaggia malinconia. Fuori concorso
Gérard Depardieu e Benoît Poelvoorde padre e figlio in Saint amour. Una coppia già fuori fase, che poteva essere inglobata in quel cinema di maschere automatizzate nel cinema della coppia Délepine-Kevern come si era visto in film come Louise Michel o Mammuth. Stavolta invece il viaggio sembra avere un’aria nuova. Sgangherato, rozzo, ma carico di una nuova umanità. Più naturale e meno caricaturale rispetto ai film precedenti. La meccanizzazione resta fortunatamente ai margini come il giocattolo per bambini. Invece altri come i crostacei nell’acquario ordinati nel menu o i preservativi con l’immagine di Chiraq sono invece in linea con l’immagine di un mondo ai margini ma metaforicamente colorato, dove stavolta la pazzia non è oggetto di freddo studio antropologico ma si combina con una pietà umana che, in qualche modo, riesce a toccare anche oltre l’iniziale superficie.
Tutti gli anni Bruno (Poelvoorde), un allevatore di bestiame, partecipa alla Fiera dell’Agricoltura di Parigi per compiere ‘la strada dei vini’. Ma quest’anno con lui c’è suo padre Jean (Depardieu) che ha portato in concorso alla fiera il toro Nabucodonosor e ha l’obiettivo di riavvicinarsi a lui. I due si ritroveranno in un viaggio ‘on the road’ assieme al tassista Mike.
La strana coppia. Quasi uno strano gioco da opposti da commedia statunitense ma qui spinti in un road-movie dove incrociano bizzarri personaggi (la giovane cameriera, il proprietario di un bed and breakfast, la misteriosa e bellissima Venus interpretata da Céline Sallette) ma in cui la loro anarchia esistenziale trova inaspettati alleati. Lo spazio diventa un continuo luogo di fuga, un provvisorio attraversamento. Nel quale si mette in gioco una sessulità primitiva, quasi animalesca. Con Bruno che cerca di attaccarsi ad ogni donna che incontra, che fa sesso con una donna elegante che lavora in un’agenzia immobiliare. Ogni situazione, che dovrebbe seguire le norme sociali, viene ribaltata. Gli umani e gli animali sono in simbiosi. E l’apparizione di Venus con il cavallo avanti la tour Eiffel e un bislacco colpo di magia.
Certo, Saint amour (che prende il titolo da un vino che viene proposto ai due protagonisti in un ristorante), giocando sempre sullo stesso registro, può avere anche dei momenti di cedimento. Ma ha il merito di un’insolita malinconia selvaggia e primitiva. Con un colpo che resta nel cuore: le telefonate alla segreteria di Jean alla moglie defunta. Segno di un film che rifiuta ogni filtro. E stavolta lo fa più con l’istinto che con la testa.