La bête, di Bertrand Bonello

Bonello si conferma teorico assoluto della materia sintetica e creatore di forme nuove con cui indaga il DNA della nuova vita delle immagini. VENEZIA80. Concorso

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Per quasi tutta l’estate un nido di piccioni mi ha fatto compagnia, piazzato su di un angolo in alto del balcone di casa, incombente come il senso di tragedia imminente che per Betrand Bonello opprime chiunque non sia disposto ad annullare le proprie emozioni in cambio di una purificazione dei sentimenti decisamente più “funzionale”, sul posto di lavoro, in società, nelle relazioni. Un piccione dentro casa, nel sistema di immagini allegoriche di La Bête, è presagio di morte (per fortuna la mia im/picciona non si è mai affacciata all’interno, mi viene da dire allora), e proprio di presagi sono cariche tutte le immagini che ancora una volta Bonello immerge nei glitch, nei lag e negli errori di sistema del linguaggio slabbrato dalla rete, come se questo nuovo film fosse una messa in pratica in un set “a grandezza naturale” (esplicitato già dal green screen svelato nell’incipit) delle simmetrie tra le finestre e i pop up degli schermi del precedente Coma. Dallo stato comatoso si passa a quello di trance, in cui nel 2044 Bonello immagina si potranno rivivere gli errori compiuti nelle nostre vite precedenti, per liberarci definitivamente dei detriti umani che ci portiamo dietro dalle nostre incarnazioni passate, e diventare così atarassici come un’intelligenza artificiale, o un viso neutro di bambola.

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Gabrielle, il personaggio di Léa Seydoux, in una prova attoriale di formidabile magnetismo, nel 2014 cerca una rinoplastica su internet come nel 2044 si convince a farsi dare invece una ritoccatina al DNA, circondata da automi esattamente come nella sua esistenza parigina nel 1910 (ispirata al racconto di Henry James La bestia nella giungla) vive sepolta dalle bambole costruite nella fabbrica del marito. Intorno a questa struttura tutta fatta di rimandi e rime interne, Bonello lavora per affastellamento, come nella sequenza cruciale in cui il desktop del Mac di Gabrielle finisce inondato dai banner e dalle pagine di spam, in un classico attacco di virus informatico da primi anni Duemila: video snuff aberranti in loop si sovrappongono allora a pubblicità di chirurgie estetiche e a collegamenti con cartomanti online, alla stregua di come il film spesso si frantumi al suo interno, tra jump cut, pixelizzazioni, split screen da dispositivo di sorveglianza, video con lo smartphone e addirittura i titoli di coda visibili attraverso un QR code.
Ma qual è quindi il virus che ha infettato l’impalcatura del film? Si tratta di un uomo, che Gabrielle è destinata ad incontrare in ognuna delle sue parabole esistenziali: gli dona volto e inquietudine George MacKay – è lui la bestia che la donna sente destinata a portare l’apocalisse nella sua vita, oppure ne è la salvezza? Intorno a questo quesito Bonello costruisce un apparato complessissimo, stratificatissimo di suggestioni e indicazioni sullo stato delle cose (il vlog da incel del ragazzo nella linea narrativa del 2014 è in quest’ottica chirurgico), e insieme realizza sezioni apertamente cinefile, come la bellissima sequenza subacquea nella Parigi inondata in cui i due protagonisti cercano di salvarsi dall’incendio della fabbrica di bambole, un chiaro rimando all’immersione acquatica sotto New York di Inferno di Dario Argento, oppure tutta la deriva lynchiana nella villa californiana tutta vetrate della parte finale.
Bertrand Bonello si conferma così cineasta inafferrabile, teorico assoluto della materia sintetica e allo stesso tempo creatore di forme nuove con cui cerca instancabilmente di indagare il DNA della nuova vita inevitabile delle immagini. Come direbbe Kevin Kelly, a proposito di futuro inevitabile e bestie in agguato, “una specie di mappa dei geni” del cinema.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
3.9 (10 voti)
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