John Wick “uccide”- almeno in parte – il vecchio uomo nero e conduce all’estremo le influenze arthouse. Viaggio attraverso l’estetica dark negli ultimi 20 anni del canone
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“Quel cazzo di nessuno è John Wick. Un tempo era nostro socio, lo chiamavano Baba Yaga. John non era esattamente l’uomo nero. Era quello che mandavi a uccidere il fottuto uomo nero. John è concentrazione pura, impegno totale e volontà ferrea. Una volta l’ho visto uccidere tre uomini con una matita. Una cazzo di matita”.
Correva l’anno 2014. Calava la notte e Keanu Reeves scelse di prendere il nero, vestendo per la prima volta quell’abito in 3 pezzi destinato a sconvolgere il panorama action del decennio a venire. Un turning point decisivo che oggi, all’indomani dell’uscita in sala del quarto e ultimo (?) capitolo della saga, ha trasformato John Wick in una icona del genere. Personificazione cronologica ultima – ma tutt’altro che isolata – dell’uomo di nero vestito. E insieme manifesto di un’estetica votata all’oscuro che la cinematografia di matrice blockbuster ha adottato (o rilanciato?) oltre vent’anni or sono. Per assorbirla, esasperarne le potenzialità e, progressivamente, trasfigurarla.
Certo parlare di rivoluzione dark nei termini di fenomeno ad appannaggio esclusivo del XXI secolo significherebbe ignorare pagine fondamentali di storia del cinema. Quel che invece traspare dall’analisi – anche superficiale – di grande parte del filone dei commercial movies è una evidente e graduale propensione, databile a cavallo del millennio, all’ingrigimento del corpo-film; a una desaturazione quasi programmatica della formula colorimetrica relativa all’immagine. Una tendenza dalla tracciabilità complessa, che ha tuttavia saputo solleticare cinefili e addetti ai lavori, incuriositi dalla possibilità di individuare ipotetici fil rouge a cui ricondurre quello che l’appassionata di Cinema Katie Stebbins, in un tweet del novembre 2021, definiva “the Intangible Sludge” (“il fango intangibile”).
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In un articolo di Vox del gennaio 2022 la critica Emily St. James ha stilato un dettagliato elenco in 5 punti per provare a determinare ben più di una valida ragione alla base del cinereo processo; tra le potenziali concause del quale – al di là di questioni tecniche ed esigenze legate al crescente utilizzo della CGI – vi sarebbe la possibilità che nei primi anni 2000 tutti cercassero di assomigliare a Matrix, sforzandosi di fare propria quell’estetica leggermente sporca del cult sci-fi, senza tuttavia possedere il genio e la visionarietà che avevano permesso agli allora fratelli Wachowski di bilanciare l’illuminazione della propria pellicola attraverso scelte di colorazione mirate.
È senz’altro curioso che il capolavoro cyberpunk del ’99 sia stato selezionato da St. James come punto di partenza ideale – per quanto del tutto ipotetico – di questa vocazione all’Intangible Sludge; dal momento che esiste un forte legame, non solo a livello citazionistico, fra Matrix e John Wick. Una interconnessione che, pur non esaurendosi nella figura del protagonista, vede nel man in black John la naturale evoluzione e prosecuzione del giovane Neo, conferendo ulteriore meta-senso alla carriera stessa di Reeves.
Ma se alfa e omega (almeno per ora) dell’esistenza cinematografica mainstream dell’attore rappresentano gli estremi dell’equazione considerata, resta da chiedersi quali action figures abbia collezionato la settima arte nel corso dei vent’anni trascorsi tra i due Keanu e se l’estetica ad esse associata possa effettivamente comporre un percorso coerente, seppur trasformativo.
Ripercorrere la scena blockbuster post 2000 significa dialogare con l’opacità di Jason Bourne, attraversare necessariamente il Cruise-verse – abitato dalle varianti Ethan Hunt e Jack Reacher – per poi sconfinare nell’universo cinecomic, colorato della fredda patina grigio-bluastra dei Batman di Nolan e Snyder. Espressioni cromatiche, scrive ancora St. James, di quell’ossessione per la fine del mondo e per le storie che hanno una posta in gioco enorme. Ossessione che ha per anni assunto toni tinti, tetri, e delineato panorami tenebrosi. Non tutte le (post)apocalissi hanno però quell’aspetto grigio e sbiadito. E a partire da questo spunto, lungo la strada che conduce alla magnificenza visiva di John Wick 4, non si può tralasciare l’importanza di pellicole del calibro di Mad Max: Fury Road; di quei blockbuster arthouse che dallo Skyfall di Mendes – il Bond di Craig è l’ennesimo action man in lista – hanno sviluppato un’estetica nuova, basata su una fotografia a saturazione nettamente più marcata e di forte contrasto. Una opulenza d’essai che ha dato vita ad opere magniloquenti, talora dalle sgargianti sfumature, talaltra estremamente più cupe; esplorando l’intera tavolozza cromatica (Blade Runner 2049) o riducendola ai minimi termini (The Batman).
E allora John Wick? Quale parte recita la saga di Stahelski in questa nostra lunga dissertazione sul look? Dopotutto, nel corso di quattro film, il franchise ha vagabondato in lungo e in largo, come il suo protagonista, seguendo dapprima uno stile da graphic novel e lasciandosi infine sedurre dalle sopracitate esagerazioni d’autore arthouse. Elaborando un mondo che, a partire dalla matrice, si è vestito della multiformità visual delle Gotham da grande schermo, per vagare poi assetato nei deserti di Miller e Villeneuve, adottando palette differenti a seconda delle proprie esigenze espressive. Un mondo di fronte al quale, a conti fatti, viene dunque naturale pensare che l’espressione “Intangible Sludge”, per quanto evocativa, non riesca a fotografare in maniera esauriente le numerose trasformazioni visive avvenute negli ultimi due decenni – sebbene ne indirizzi il cammino d’analisi. E forse, il progetto John Wick, transitato per la cupa “monocromia” dei primi due capitoli e ammaliato dalla esaltante mélange artistica di Parabellum e sequel, incarna alla perfezione lo spirito di rinnovamento ibrido del presente; privilegiato interprete di un’estetica Baba Yaga inviata ad uccidere – almeno in parte – il vecchio fottuto uomo nero per aprire nuove strade, disegnare nuovi corpi, dipingere con nuovi colori.
-------------------------------------------------------------- IL N.14 DELLA RIVISTA DI SENTIERI SELVAGGI
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