LOCARNO 66 – La nuova Locarno, radicale e impegnata
L'ultima edizione ha chiarito che il festival sta cambiando volto. Più austera, la nuova Locarno sembra voler rappresentare un'epoca di crisi. Che rifiuta il glamour e se lo concede solo per celebrare icone del cinema classico e moderno. E adotta quasi esclusivamente opere che si interrogano sul presente e sul futuro del cinema, tra supporti e generi dai confini sempre più sfumati.
Radicalità e differenza. Lo aveva detto Lorenzo Esposito, presentando la conferenza stampa di Sangue di Pippo Delbono, che quelle erano state le linee guida della 66a edizione del Festival, la prima con la firma di Carlo Chatrian e del suo comitato di selezione che, oltre a Esposito, conta Mark Peranson, Sergio Fant e Aurélie Godet.
Ma forse non era necessario: già dal primo giorno, con le prime proiezioni del Concorso era saltato agli occhi il grande scarto con il triennio precedente. Sparito, o quasi, l'indie americano che lo scorso anno riempiva le sale della cittadina ticinese, ma rimasto evidentemente nel cuore degli spettatori che hanno tributano a Short Term 12 di Destin Cretton, l'applauso più lungo riservato a un film della competizione.
Fatta eccezione per questa piccola parentesi di cinema Usa, culminata con il premio alla protagonista Brie Larson come Miglior Attrice e una Menzione Speciale, le altre diciannove opere in lizza per il Pardo d'oro hanno dimostrato un'idea di cinema completamente diversa da quella della gestione Père. Se l'anno scorso il filo conduttore del festival era sembrato il Tempo, con film assai diversi che ripercorrevano la nostalgia verso il passato o le metamorfosi dei sentimenti nello scorrere di una relazione, quest'anno il centro del discorso è stato senz'altro la riflessione sull'oggetto-cinema.
Digitale o pellicola? Numerosi lavori hanno celebrato una sorta di requiem per il supporto analogico, dallo struggente E agora? Lembra me, in cui il discorso esistenziale, privato, dell'autore, si intreccia a quello di un'epoca di testi e visioni (Pasolini, Daney) ormai irrimediabilmente perduta, al Bressane di Educação Sentimental, dove la protagonista srotola in primo piano una pellicola, proclamando "Il cinema è finito, la stagione dei cineclub è finita".
Ma sono solo gli esempi più immediati: Pippo Delbono suscita un putiferio e spacca a metà pubblico e stampa con le immagini di Sangue, dove tocca due tabu culturali: l'inviolabilità della morte e – quello squisitamente italiano – del confronto con gli anni del Terrorismo. Oppure il duo Gianikian Ricci-Lucchi che gareggia con un film d'archivio fatto di sole immagini ritrovate, sfogliate a ritroso come un album di famiglia, del Ventennio fascista, con le sue auto-messe in scena imperialistiche ma anche i sogni e le speranze di un popolo sempre sedotto dagli uomini forti.
Alle meditazioni più radicali e engagé, si sono accostati i film che hanno tentato di rileggere il cinema del passato: Une autre vie di Emmanuel Mouret è un'incursione tra i territori del noir e del mélo classici, mentre L'étrange couleur des larmes de ton corps parte dagli intrecci e dalle atmosfere del giallo anni Settanta per deviare quasi verso la videoarte, svuotando la narrazione e affidandosi unicamente a un'esasperata ricerca estetica.
L'Oriente guadagna posizioni portando per la prima volta al Festival autori di maggior prestigio: habitué di Cannes, Venezia e Berlino, il terzetto composto Hong Sang-soo, Kiyoshi Kurosawa e Shinji Aoyama ha portato a Locarno opere molto rappresentative del rispettivo stile, quasi uno show reel della propria poetica. Se Aoyama ha convinto con la sua storia nella Storia, dove sessuale e politico si intrecciano simbolicamente, il Pardo alla Miglior Regia è andato al delizioso Our Sunhi di Hong Sang-soo che, con i suoi piani-sequenza, sembra offirsi come controcampo ideale di When evening falls on Bucarest di Corneliu Porumboiu.