"Omaggio a Béla Tarr" alla Cineteca di Bologna

Perdersi in estatici abissi in bianco e nero, smarrirsi tra le cattedrali in decadenza di un’estetica formale ma non priva di echi poetici retti da altissimi lirismi immaginifici. Al centro del cinema di Bela Tarr c’è l’uomo e il suo dolore. La Cineteca di Bologna ha dedicato una preziosa retrospettiva al regista ungherese

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Perdersi in estatici abissi in bianco e nero, smarrirsi tra le cattedrali in decadenza di un’estetica formale ma non priva di echi poetici retti da altissimi lirismi immaginifici. Architetture visive impreziosite da nebulose polverose, i grigi sgranati lasciano il posto a cupe tenebre che si impadroniscono dello schermo. Trame narrative pregne di nichilismo in cui si intrecciano storie di gente comune, un’umanità abbandonata a sé stessa, ai margini di una società povera. Al centro del cinema di Bela Tarr c’è l’uomo e il suo dolore, il male di vivere che lo accompagna nel quotidiano, una disperazione lacerante che caratterizza tutte le sue opere. Tempi dilatati raccontati attraverso la poetica del piano-sequenza, campi lunghi e profondi, che conducono lo spettatore all’interno della scena. Il cinema vissuto con profondo amore, come un’ossessione che il regista riversa nella costruzione dei suoi film, un attraversamento degli schermi con classicismo e sperimentazione moderna allo stesso tempo. Bela Tarr racconta attraverso le sue opere il sublime dell’apocalisse, l’angoscia della catastrofe narrata attraverso l’estasi delle immagini e l’accavallarsi di metafore e simbolismi.

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La Cineteca di Bologna ha dedicato una preziosa retrospettiva al regista ungherese. Dal 29 al 31 gennaio, nel corso del sentito “Omaggio a Bela Tarr”, sono state proiettate le tre pellicole più recenti dell’autore, assente personalmente a causa di impegni imprevisti. L’uomo di Londra (À London férfi, 2007), ispirato all’omonimo romanzo di Georges Simenon, presentato al Festival di Cannes nel 2007, ha aperto la rassegna. Definito dallo stesso Tarr un noir, con toni che rimandano al cinema francese e pervaso da atmosfere glaciali e sospese, il film concentra l’attenzione sulle pulsioni umane e sul desiderio, andando a scoprire i nervi di una natura feroce di matrice hobbesiana. La scena è dipinta con un bianco e nero drammatico, in cui la luce è dosata con parsimonia, come satelliti che illuminano piccole zone; la tragicità del nero avvolge lo schermo risucchiandolo, a tratti, per intero. Lunghi e lenti piani-sequenza stregano la visione e subito la trama narrativa si srotola su una fitta matassa noir. Il cavallo di Torino (À Torinoi Lo, 2011), vincitore nel 2011 del Premio della Giuria al Festival di Berlino, è l’ultima opera del regista. “Il 13 gennaio del 1889, a Torino, Friedrich Nietzsche esce dal numero 6 di via Carlo Alberto. Vuole fare una passeggiata, forse, o deve andare a prendere la posta. Non distante da lui, o forse molto lontano da lui, un cocchiere ha dei problemi col suo cavallo ostinato. Nonostante lo sproni, il cavallo si rifiuta di muoversi. Al che il cocchiere – poteva chiamarsi Giuseppe, Carlo o forse Ettore – perde la pazienza e inizia a frustarlo. Nietzsche esce dalla folla e pone un freno alla violenza del cocchiere, che a questo punto è schiumante di rabbia. Il ben piantato e paffuto Nietzsche salta inaspettatamente sulla carrozza e, singhiozzando, cinge con le braccia il collo del cavallo. Il suo vicino lo conduce a casa, dove resterà su un divano per due giorni, immobile e in silenzio. Dopo questo periodo pronuncerà la celebre frase : “Mutter, ich bin dumm” (Madre, sono diventato pazzo).Vivrà una mite follia per altri dieci anni accudito dalla madre e dalla sorella. Del cavallo …. non abbiamo più notizie”.

Le parole del regista introducono lo spettatore alla visione di quello che è considerato uno tra i suoi capolavori più alti, una rappresentazione dell’apocalisse attraverso uno sguardo nichilista, cupo e drammatico. La dilatazione dei tempi e la ripetizione dei gesti contribuiscono a sospendere lo spazio nell’attesa dell’imminente catastrofe. L’alternanza dei piani sequenza con immagini statiche aumenta la sensazione di smarrimento, la discesa lenta ed inesorabile verso l’abisso si fa tangibile. L’intollerabilità del divenire ferma le azioni in un continuo ripetersi, un doloroso susseguirsi di gesti sempre uguali è metafora della morte, unica e comune destinazione certa. Le Armonie di Werckmeister (Werckmeister Harmóniák, 2000), definito da Jim Jarmusch “una specie di sogno”, racchiude in sé l’elemento onirico ma anche la farsa grottesca. Il cosmo disegnato da Bela Tarr è in lento decadimento, le architetture fatiscenti sembrano sul punto di sgretolarsi, la natura dell’umanità è in caduta libera verso il deragliamento della morale, l’unica via percorribile è quella disegnata dalla distruzione. La rivoluzione si accende in una piccola cittadina dopo l’arrivo di una balena, che porterà con sé morte e distruzione ma, come avverte Tarr, “questo film è molto più di una semplice storia per me. Riguarda un conflitto eterno: la lotta secolare tra l'istinto barbarico e la civilizzazione; riguarda un processo storico che ha definito gli ultimi due secoli di tutta l'Europa orientale”. Una cosmogonia caustica dipinta in maniera sublime dalla mdp tarriana, per immergersi nello sgomento, ma anche nella meraviglia visiva della catastrofe.

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