PESARO 42 – Ghiaccio bollente.

Passioni torride si aggirano per un festival di sguardi raggelati: dall'argentino Perrone alla tedesca Grisebach… passando per un campo d'addestramento Marine

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Fa caldo a Pesaro, un caldo umido che ti si incolla alla pelle ma che ti lascia freddo dentro. All'esatto opposto, la seconda giornata della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema inizia con un pugno di film in qualche modo già visti, lasciati a macerare o già raffreddati, ma che dentro ti bruciano le budella, un pof come i pomodorini di Fantozzi. Si parte con "La mecha", film del regista-sceneggiatore-attore argentino Raul Perrone, storia di un ottatantaquattrenne pensionato dei sobborghi di Moròn alle prese con uno stoppino rotto. Per trovarne uno di ricambio intraprende la classica discesa nell'inferno di disperazione di un'Argentina in ginocchio per la crisi economica ma sempre capace di solidarietà e umana compassione, con tanto di immigrati giapponesi che gli aggiustano la spalla dolente con un massaggio nel retro di un ferramenta. Capace di rivitalizzare la lezione neorealista senza pietismo, il film di Perrone (prodotto non a caso da Pablo Trapero) riesce a far lievitare una storia minima non tanto per accumulo, quanto per la precisione incisoria che caratterizza ogni singolo episodio. Il viaggio di don Galvan è in primo luogo un viaggio attraverso materia primigenia dell'arte narrativa, il suono, modulato con efficace valenza metaforica. E se l'dea di fondo è tutt'altro che originale, un finale sospeso come pochi chiude la strada a qualsiasi lettura idealistica o al contrario pessimistica, lasciando scorrere il tempo carico di terribile indifferenza.

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Un'altra discesa agli inferi proviene dalla sezione "Focus on indipendent docs", dedicata al documentario indipendente americano: per realizzare "Ears open, eyeballs click",  il regista esordiente Canaan Brumley ha semplicemente ripreso due settimane di addestramento dei Marines. Nessuna intervista, nessun intervento diretto sulla materia grezza: Brumley ha persino rifiutato l'autorizzazione a doppiare il film. A ragione: per due ore lo spettatore è sottoposto alle urla animalesche e alla brutalità degli istruttori, imitati scimmiescamente dalle reclute. L'incomprensibilità verbale è tutt'uno con quella degli atti e delle motivazioni, con soldati costretti a portarsi in bagno massi di cemento armato, letti da smontare e rimontare, corpi strappati a qualsiasi dignità gettati nella notte come cartucce, seminudi, alla luce delle torce. Se la prima parte di Full metal jacket vi aveva impressionato, il film di Brumley dimostra che la realtà supera sì la fantasia, ma solo sul piano della falsità, dell'assurdità, dell'irrealtà.


Alla decomposizione ipermuscolare dei corpi dei marines risponde il sacro fuoco della ciccia di Diego Armando Maradona, protagonista di due documentari presentati al Festival. Il primo, proiettato oggi, si intitola "Maradona: vida, calabra y goles" ed è firmato da Miguel Rodriguez Arias. Il film racconta la vita del Pibe come fenomeno socio-politico-mediatico, nei suoi mutevoli rapporti con l'opinione pubblica, Menem e Castro, la cocaina e la Carrà; un punto di vista certo interessante, che però il film non porta fino in fondo e si accontenta di documentare, senza trarre le estreme conseguenze di quanto racconta. Arriviamo così all'ultimo fuoco della giornata, il più ardente e gelido, appiccato dalla regista tedesca Valeska Grisenbach per il secondo film in concorso al Festival, "Sehnsucht". Storia di un amore che strappa il fabbro Markus, pompiere volontario, alla moglie corista, gettandolo tra le braccia della cameriera Rose. Il problema è che l'amore non ha nemmeno lei come oggetto, bensì l'ineffabile nostalgia che proviamo per quanto non abbiamo mai posseduto (è forse questa l'unica traduzione possibile per il termine preromantico Sehnsucht, reso infelicemente con l'italiano "desiderio"). Soltanto nella danza frenata e nel fuoco di un falò, e non nelle braccia di qualsivoglia femmina (per lui sono tutte belle) il povero Markus riesce a trovar pace e a riscaldarsi un cuore perso nelle ghiacciate distese germaniche. Perché è lo sfondo rurale a dettargli talvolta i movimenti, delineando le traiettorie di un mèlo filosofico che fa dialogare il basso con l'alto come solo i tedeschi sanno fare. Peccato per il finale, davvero insoddisfacente, per un film che forse poteva permettersi di non averne affatto.

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