SPECIALE THE COUNSELOR – Il diamante imperfetto
Il noir contemporaneo è ormai confinato in una road to nowhere impenetrabile, dove quel prezioso diamante che filtrava i perturbanti chiaroscuri della Storia non può più riflettere le grandi ideologie novecentesche (Chandler, Cain, Hammett…) ma solo il cinema stesso, come unica/ultima/sopravvissuta immagine capace di produrre un pensiero dalle superfici
Si esce interdetti dalla visione di The Counselor. Prima “sceneggiatura originale” del più celebrato scrittore americano contemporaneo, data in pasto al regista/ghepardo più famelico e industriale degli ultimi trent’anni di cinema hollywoodiano. Si esce dalla sala incredibilmente sorpresi (che bella cosa da dire, oggi!), in-consapevoli di aver visto un film in-volontariamente in-compiuto, una sorta di enorme pilot di una serie che non ci sarà (o che c’è già stata…). Un film che configura un'abissale orizzontalità cognitiva e narrativa, che non ha mai bisogno di ulteriori “interpretazioni”, anche in un tempo (il nostro) dove ogni esperienza richiede kafkiani libretti d’istruzioni a priori o sfiancanti ragionamenti teorici a posteriori.
E allora eccolo il campione del postmoderno anni '80, quello dei rimandi di secondo e terzo grado, il cineasta videoclipparo e commerciale per eccellenza, che ha sempre dialogato solo con le sue stesse immagini “aliene” o “replicanti”…ritrovatosi nel 2014 a mettere in scena personaggi straordinariamente unidimensionali, opponendo un discorso clamorosamente di “primo” livello sul cinema, sull’immagine, sulla complessa retorica letteraria meccartiana. Scott porta tutto a galla in un processo di semplificazione estrema e di denudamento di ogni stilema di genere (questo è veramente il suo film più vicino al suo sottovalutatissimo Robin Hood, altra grande prova di scarnificazione del Mito), assumendo la felpata e “famelica” femme fatale Cameron Diaz a regista intradiegetico che guida i destini dei crudi archetipi di McCarthy senza nessuna logica razionale o teorica. "Un po’ qui un po’ là, ci si deve pur divertire nella vita" come dice John Leguizamo (uno dei tanti inutili e bellissimi camei di questo film).
Ogni inquadratura, snodo narrativo, personaggio, strumento di tortura o atto d’amore, è sempre e semplicemente ciò che appare; e ogni azione e reazione si colora così di un'imprevedibilità tutta umana (in perfetta congruenza con gli ultimi film di Greengrass o dei Wachowski) che Scott non si sogna mai di approfondire più di tanto. Il cinema diventa allora quel diamante imperfetto che Bruno Ganz consiglia con passione a Fassbender a inizio film, “noi cerchiamo imperfezioni, è questo il bello”, ma che viene gentilmente rifiutato perché è la pura verità che l’ingenuo Michael vuol regalare alla sua bella Penelope. Una ingenuità che pagherà carissima – Javier Bardem gli ride in faccia, “tu sei incredibile!" – perché qui ogni inquadratura cela ormai la placida consapevolezza che non c’è più veramente nessuna verità da scoprire oltre se stessi: "i bastioni di Orione o le Porte di Tannhauser" che il vecchio replicante Roy Batty ci imputava di non “poter nemmeno immaginare”, le abbiamo ampiamente immaginate nei successivi trent’anni. E allora l’ultima verità palese e palesata di questo preziosissimo film rimane il cinema stesso, che Ridley (tornato ormai anni fa da Tannhauser e prima di tutti) si ostina a perpetrare con sublime e anacronistica inerzia. Un film dall’inspiegabile fascino cristallino, dominato da bisogni fisici e primari, persino “troppo ginecologici per poter eccitare”.