Tacchi a spillo, di Pedro Almodóvar

Un film angosciante e seducente, affilato come tacchi a spillo, interamente edificato sul proprio travestitismo strutturale e contenutistico. Da domani in sala

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“Da bambina, quando vivevamo insieme, non riuscivo a dormire senza sentire i tuoi tacchi allontanarsi nel corridoio, dopo che eri passata a trovarmi. Non importa quanto fosse tardi. Rimanevo sveglia per il suono dei tuoi tacchi.”

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Vive di percezioni Tacchi a spillo, nona regia di Pedro Almodóvar del 1991, da domani di nuovo in sala. Percezioni suggerite, nebulose per certi versi, incasellabili a fatica all’interno della mutevole struttura del testo-film. Vive di sensazioni, di scarti continui, di trasformazioni tematico-concettuali pennellate sullo sfondo della solita Madrid, centro gravitazionale di gran parte della produzione del cineasta spagnolo, qui punto di partenza e destinazione, generatrice di moti a luogo e da luogo visivamente e temporalmente intrecciati.

A Madrid, dopo quindici anni di lontananza, fa ritorno Becky del Paramo (Marisa Paredes), acclamata cantante spagnola divenuta celebre in Messico. Ad attenderla, nella capitale, vi è la figlia Rebecca (Victoria Abril), abbandonata dalla madre in carriera quand’era ancora piccola e ora conduttrice di un telegiornale nella catena televisiva del marito Manuel (Féodor Atkine), un tempo grande amore di Becky. Il re-incontro tra le due donne, a lungo atteso, muta però presto in tragedia; in una spirale di bugie, mezze verità e vecchi livori rimasti troppo a lungo sopiti, seppelliti nella sabbia del rancore.

È un film indubbiamente materico, che dagli oggetti e attraverso gli oggetti prende le mosse per costruire una fitta ragnatela di intrighi, false piste e finzioni. Gli orecchini della piccola Rebecca, le fotografie scattate dalla donna, il revolver e arma del delitto, le pastiglie, i tacchi delle scarpe; tracce della fisicità di un lungometraggio capace persino di vibrare della sfuggevole concretezza delle sue parole. In seno alla meravigliosa sequenza della confessione televisiva prima – simultaneamente tradotta nella corporeità della danza “chirale” della lingua dei segni – e al successivo triplo interrogatorio condotto dal giudice Domínguez poi, in un avvicendamento quasi pittorico dei primi piani delle sospettate.

Almodóvar allestisce un lungometraggio ingannevole, edificato interamente sul concetto di “doppio”. Cita apertamente Bergman – in un simbolico parallelismo con Sinfonia d’autunno – miscela passato e presente e si lascia cullare dal “travestitismo”; arrivando a comporre un labirinto di passioni e figure sovrapponibili all’interno del quale brillano le fascinose maschere di Miguel Bosé, personaggio manifesto di un costante metamorfismo strutturale e contenutistico che ha nella femme fatal – o meglio nella femme letal – il suo fulcro e motore.

A derivarne è un film che, seppur minore, rappresenta un ideale prodotto-fucina per la carriera del regista, palestra in nuce di ragionamenti e discorsi che nel tempo hanno eretto e direzionato cinema e poetica di Almodóvar. Un racconto che è innanzitutto viaggio tra i generi, che sfrutta gli stilemi del giallo per scardinarli e poi ricomporli in un drama-thriller (quasi) tutto al femminile, nella parabola di dolor y gloria di due madres paralelas mai realmente incontratesi.
Un racconto angosciante e seducente, affilato come tacchi a spillo.

 

Titolo originale: Tacones lejanos
Regia: Pedro Almodóvar
Interpreti: Marisa Paredes, Victoria Abril, Miguel Bosé, Bibiana Fernández, Javier Bardem, Lupe Barrado, Féodor Atkine
Distribuzione: CG Entertainment in collaborazione con Cinema Beltrade – Barz and Hippo
Durata: 112′
Origine: Spagna, Francia 1991

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
Sending
Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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