The Covenant, di Guy Ritchie

Il cineasta tenta la strada di un cinema più misurato e in parte ci riesce. Poi però cede alle ambizioni e non si rende conto di quanto gli elementi migliori del film siano i più semplici. Prime Video

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Non bisogna farsi ingannare da Operation Fortune, la spy story stilizzata, a cento all’ora, con cui Ritchie sembrava essere tornato a casa dopo il curioso momento sperimentale attraversato con l’action La furia di un uomo. Il suo cinema è ancora ben fermo nello stesso laboratorio da cui è emerso l’ heist movie con Jason Statham e lui è ancora impegnato ad espandere le aree di competenza del suo cinema ben al di là delle storie di gangsters londinesi, magari in modo più marcato rispetto a quanto fatto con quel film, di fatto un giochino appassionato con il cinema di Mann che però, appena poteva, tornava negli spazi canonici del classico mafia movie schizzato.

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Con The Covenant è indubbio, tuttavia, che il suo passo sia più risoluto. Lo racconta forse già la coraggiosa incursione in uno spazio che non gli è mai davvero appartenuto, quello del War Movie fatto e finito.

Al centro del film c’è infatti il sergente John Kinley, salvato dopo un conflitto a fuoco dal suo interprete Ahmed e che, una volta tornato in America, decide di ritrovare il suo salvatore per restituirgli il favore: l’atto di eroismo compiuto, infatti, ha reso l’arabo un ricercato dei talebani, che stanno dando la caccia a lui e alla sua famiglia.

Non si tira indietro, Ritchie, sembra davvero voler raccontare un nuovo lato della sua autorialità, ma soprattutto sembra voler dimostrare di non essere più quello che cerca la stilizzazione a tutti i costi, puntando, piuttosto, per un passo più secco, drammatico, volutamente in minore.

E per tutta la prima parte pare davvero un uomo nuovo, centratissimo, pronto a inseguire uno strano Bruckheimer-movie sporcato, tuttavia, di suggestioni western, da quello di Peckinpah a quello riattraversato, evocato da Hill. Cita la sparatoria finale de Il mucchio selvaggio, fa muovere i suoi personaggi in fuga come se stesse rigirando I guerrieri della palude silenziosa. Guy Ritchie, forse vuole fin troppo che lo spettatore percepisca la sua erudizione ma al contempo non eccede mai, concentrato a gestire con attenzione le linee tensive nel tentativo di non far mai calare davvero il ritmo.

Poi, però, qualcosa sembra rompersi. Ritchie forse non si accontenta di porre in primo il suo sguardo, ma vuole anche far sentire la sua voce, prendere una posizione nello spazio tematico del film. Ma il suo approccio è tutto da discutere. Perché tra le righe Ritche, con The Covenant pare sobbarcarsi il tentativo di raccontare le evoluzioni ed i mutamenti dell’action hero di guerra dal machismo reazionario degli anni ’80 al contesto multiculturale e alla mascolinità fragile di oggi. Ma è un discorso malfermo, che il film affronta a fatica e che pare tenere davvero solo nella prima parte.

Lì Ritchie è quasi sfrontato: tiene il focus sempre leggermente spostato sull’interprete Ibrahim (molto più che sulla star Jake Gyllenhall), ma soprattutto racconta un rapporto fondato su una comunicazione asimmetrica, tra un soldato diffidente, insicuro, sempre inconsapevolmente un passo indietro, ed un interprete che, forse, sa più di quanto lascia intendere.

Ma nel seguire il soldato Kinley in patria Ritchie sembra smarrirsi. Coglie, in un primo momento, la grande intuizione di raccontare il confronto del protagonista con la burocrazia, alla ricerca di un visto d’immigrazione per il suo salvatore con i ritmi forsennati dell’action (qual è, in effetti, l’oggetto del desiderio definitivo che racconta meglio l’elemento multiculty dell’action contemporaneo) ma ha subito il fiato corto, come se avesse già finito le idee.

E così annaspa, apre filoni narrativi che non chiude, aggiunge carne al fuoco. Ma forse il problema è voler alzare a tutti i costi la posta, voler raccontare il portato traumatico della guerra in Afghanistan sull’inconscio collettivo americano attraverso la storia del sergente Kinley. Ma è un’ambizione fuori misura, che Ritchie ostinatamente prova a inseguire malgrado non abbia ancora il passo adatto per assecondarla. Così il film rischia di avvilupparsi in ragionamenti superficiali e fuori tempo massimo.

E allora non stupisce se alla fine The Covenant si chiuda su un ultimo atto frettoloso ma soprattutto irrisolto, che pur di chiudere ribalta ai limiti della contraddizione molti degli affascinanti spunti colti fino a quel momento.

Prima, però, Ritchie trova il tempo per un’ultima zampata. Perché in quello scambio di battute attraverso cui Kinley e Ibrahim si ritrovano, poco prima della fuga finale, c’è quella sincerità, quella purezza, che solo chi è riuscito a rimettere in discussione il suo sguardo riuscirebbe ad ottenere. Forse è questo a cui puntava Ritchie fin dal primo momento, peccato non se ne sia accorto davvero.

 

Titolo originale: id.
Regia: Guy Ritchie

Interpreti: Jake Gyllenhall, Dar Salim, Antony Starr, Alexander Ludwig, Emily Beecham, Jonny Lee Miller
Distribuzione: Prime Video
Durata: 123’
Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
Sending
Il voto dei lettori
3.33 (3 voti)
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