VENEZIA 65 – "Domani torno a casa", di Paolo Santolini e Fabrizio Lazzaretti (Eventi collaterali)

Vorremmo poter uscire dopo il "Chiamate papà che muoio" che apre il film, dopo le inquadrature del logo da ogni punto possibile, Prima della caduta dell'idea nell'ideologia, prima che i meccanismi di difesa dalla morbosità, dalla mancanza di idee e dalla catena di luoghi comuni polverizzino ogni potenziale utilità sociale

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Può il cinema raccontare le tragedie sociali? Luogo comune più che domanda autentica, punto interrogativo che ritorna su se stesso ogni volta che un regista sceglie di affrontare un tema al di là di emozioni da entertainment o godimento estetico. Luogo comune ma sempre senza risposta, dal mondiale Michael Moore all'ultimo sconosciuto regista di documentari disagiati. Di certo l'onestà intellettuale è una componente, se non del rapporto di ogni artista con il proprio mondo e il cinema, almeno della relazione cui tanto si anela (?), quella con lo spettatore. Vorremmo che tutte le organizzazioni di medici che nel mondo si occupano di aiuto avessero accesso ai media. Vorremmo che, dal primo all'ultimo minuto di questo cinema, al concetto di buone intenzioni venisse impedito di palesarsi. Vorremmo non sentir avanzare il dubbio e il fastidio per quelli pronti a commuoversi senza pensare né ricordare. Vorremmo che un lavoro che passa in uno dei più prestigiosi festival mondiali si dichiarasse per quello che è, non che uno spot pubblicitario di Emergency della durata di novantasette minuti fosse lì, con i suoi volantini di raccolta fondi ferocemente disposti su ogni poltrona della sala, impaziente di fagocitare, ricattare, tentare di distruggere lo spettatore passando per la comoda e ampia strada del senso di colpa. Vorremmo non dover rispondere "no" alla domanda iniziale dopo che la macchina da presa ha insistito ingiustificatamente, inequivocabilmente e immotivatamente sulle lacrime, gli arti mozzati, le mosche, le ferite aperte, un cuore che pulsa dentro un corpo sottoposto a un intervento chirurgico. Vorremmo poter uscire dalla sala dopo il "Chiamate papà che muoio" che apre il film, dopo le inquadrature del logo da ogni punto possibile, prima dell'ennesima caduta dell'idea nell'ideologia, prima che i meccanismi di difesa dalla morbosità, dalla mancanza di idee e abbondanza di furbizia, dalla catena di luoghi comuni polverizzino ogni potenziale utilità sociale.
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