Yuli – Danza e libertà, di Icíar Bollaín

Tanti fatti, tante cose dentro il film, ma è come se l’anima del protagonista faccia fatica a venire fuori. Eppure si apre con una magnifica sequenza

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Se un merito ha Yuli – Danza e libertà è quello di una magnifica sequenza iniziale in cui L’Avana sembra essere letteralmente abbracciata dalla macchina da presa che fa brillare agli occhi la bellezza di quella città così malinconica e demodé, quasi arroccata in un romanticismo d’altra epoca.
Il film è la biografia del ballerino cubano Carlos Acosta, tratto dal suo autobiografico No Way Home e nel tratteggiare i passaggi salienti che dalla strada e dalla breakdance lo hanno portato ai più grandi palcoscenici del mondo, non manca di raccontare il tormentato rapporto con il padre e le sue origini dignitosamente povere nei sobborghi della capitale cubana. Il padre, camionista in pensione, al contrario di come si potrebbe pensare, è orgoglioso del figlio ballerino e contrasta con ogni mezzo il desiderio di ritorno a Cuba che Carlos manifesta quando vede nel ballo, che sembra non amare fino in fondo, ciò che lo tiene lontano dalla sua famiglia e dal suo Paese. Carlos è un cubano autentico, discendente da uno schiavo e da personaggi leggendari che sono diventati miti per la loro attitudine al combattimento, un retaggio che lo lega a Cuba da cui non è desideroso di fuggire poiché trova nel radicamento culturale della sua terra una ragione di vita. Ma la sua carriera lo porterà lontano e il tempo potrà fargli capire la fortuna che lo ha assistito e riemergerà forte anche l’amore verso il padre.
Dirige il film la basca Icíar Bollaín già attrice anche di Ken Loach e Victor Erice. Lo interpreta nella parte di sé stesso ormai adulto, in una funzione di anima narrante, lo stesso Carlos Acosta.
Le biografie cinematografiche che si affidano ad una progressione narrativa lineare e che vogliono trasferire la vita del protagonista nel tempo concesso dal film, finiscono con il soffrire, tutte o quasi tutte, di un inguaribile e forse non risolvibile difetto genetico. Un vizio originario che si manifesta, sempre (o quasi sempre) in una sovrabbondanza narrativa che finisce con l’accumulare eventi, forse anche decisivi della vita del soggetto protagonista, ma pur sempre fatti e accadimenti, colpi di scena, addii, incontri, lacrime e risate. In altre parole tutto quell’armamentario che fa della vita una cosa importante per chi la vive, ma spesso lascia un vuoto decisivo per chi entra in sala per vedere un film che sia una biografia di una persona per la quale valga la pena di costruirci una narrazione per immagini.

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Lo stesso purtroppo accade in Yuli – Danza e libertà. Tanti fatti, tante cose dentro il film, ma è come se l’anima del protagonista faccia fatica a venire fuori, il film resta irrisolto in alcuni suoi determinanti profili. Si fa interessante il rapporto e il legame che Carlos ha con la sua famiglia, ancora di più quello con il Paese in nome di una rivoluzione forse diventata parte di sé, o forse per un sentimentalismo innato o forse ancora per un generoso e disinteressato patriottismo, ma nulla di più sappiamo su questa parte della vita del ballerino. È così che i suoi ostinati comportamenti volti a vanificare anni di lavoro per la voglia di tornare a casa, sembrano diventare i capricci di un quasi divo, piuttosto che fondati su una solida convinzione e su una precisa scelta di vita. Non è un caso che i momenti decisamente più felici del film siano quelli dei dialoghi tra Carlos e la sua maestra in cui l’intimità profonda, si fa conoscenza, mostra le comuni radici mostrando una condivisione che sembra avvicinare gli spiriti di entrambi.
Purtroppo l’approccio semplice e immediatamente percepibile che può restituire al biopic quella veloce empatia che l’autore cerca da sempre con il pubblico, se da una parte semplifica sicuramente il lavoro di sceneggiatura e forse anche di lavoro sul set, penalizza la qualità del film, penalizza, soprattutto, quella ricerca di senso profondo della vita del protagonista, che non può risiedere di sicuro nella progressione degli eventi e nella crescente successo che premi il talento.
È il vizio di un biografismo che non rischia nulla o quasi, che si adagia, senza molta personalità, su quella del suo (s)oggetto di interesse e che, senza troppo lavorare sui profili biografici del protagonista, preferisce imboccare la strada più semplice del romanzo di una vita, piuttosto che la fulminazione artistica della ricerca di un senso differente e di un tratto della vita che riesca a diventare la parte che spiega il tutto, raccontando questo (possibile) tutto e sappia offrire un profilo più autentico del personaggio.
Anche Icíar Bollaín si adagia sulle possenti spalle del suo ballerino e non ci mette molto di suo in un film che seppure ci fa scoprire un personaggio di sicuro interesse è come se celasse dietro quell’eccesso narrativo il vero volto e la vera anima di Carlos Acosta.ma soprattutto sembra adagiarsi la scrittura di Paul Laverty sceneggiatore fidatissimo di Ken Loach che qui non mostra le sue migliori qualità.
Paradossalmente quando ciò accade e ciò purtroppo accade in Yuli danza e libertà, il vero sembra sfumare e resta (se resta) lo spettacolo, resta lo sguardo d’insieme, come quello del finale ancora su l’Avana a chiudere quel cerchio non troppo perfetto che il film sa disegnare.

Titolo: Yuli
Regia: Icíar Bollaín
Interpreti: Carlos Acosta, Edlison Manuel Olbera Núñez, Keyvin Martinez, Santiago Alfonso, Mario Elias
Distribuzione: EXIT Media
Durata : 109’
Origine: Spagna, Germania, Cuba, Gran Bretagna 2018

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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