SPECIALE Cinderella Man -"Accorciare o annullare la distanza…"

Con Ron Howard la ragione delle immagini è, e deve solo essere schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire ed obbedire ad esse. Tenere la distanza anche da questo regista, altrimenti potremmo lasciarci andare ad uno "screditante" abbraccio.

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Con i buoni mestieranti non puoi certo accorciare la distanza, rischiare di lasciare scoperto uno spiraglio fatale. Ma con Ron Howard la ragione delle immagini è, e deve solo essere schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire ed obbedire ad esse. Stile limpido, continuatore del modo classico di fare cinema, accurata copia della realtà, copia del mondo ideale. Rivolgersi allo spettatore comune da sala, facendolo entrare tranquillamente nella finzione, offrendogli fin dalle prime immagini una storia da seguire. Ron Howard è al servizio di noi poveri guardoni: ci esorta a metterci a nostro agio, per essere sicuri che non dovremo preoccuparci di nient'altro se non di stare a guardare e ad ascoltare. Tenere la distanza anche da Ron Howard, altrimenti potremmo lasciarci andare ad uno "screditante" abbraccio dopo tutti quei montanti e ganci tramortenti. Il prete/tifoso, durante l'incontro clou ascoltato alla radio dagli scanni della sua chiesa in compagnia di altri fedeli/tifosi in preghiera, incita Cinderella a tenera questa "benedetta" distanza. È l'ultimo round della sfida decisiva, l'ultima fatica, e quella distanza ormai è saltata, lo spazio contiene tutti i corpi coinvolti (anche i nostri) per passare da pura e immediata rappresentazione mentale a concreta partecipazione esistenziale. L'esistenza che scivola tra i piani sequenza: dall'agiatezza alla corruzione, con il tempo che scandisce il moto, le azioni reciproche fra corpi in movimento. In questo cinema il piano aspetta che appaia sullo schermo un qualche indizio e segno dell'interiorità, le tracce del suo porsi come enigma mostrato e non svelato. Anche una labile traccia che il piano, nel suo durare, nel suo saper aspettare (e soffrire), nel suo guardare a lungo, riesce a conservare. L'interiorità si può soltanto velare e (ri)velare dentro un enigma che si cela nell'interiorità di un uomo. Ma l'interiorità non basta: il cinema di Ron Howard esprime la "logica delle sensazioni", fino ad arrivare all'ultimo gradino, l'intimità in noi che ci oltrepassa e infrange l'opposizione con l'esteriorità annichilente. La logica delle sensazioni in cui razionalità e sensibilità crescono e si nutrono a vicenda, in cui in ogni percezione c'è il pensiero e il mondo esteriore entra in comunicazione con quello interiore consentendo ad entrambi di svilupparsi insieme. Le soggettive sul ring, quelle annebbiate dai pugni che staccano il tessuto connettivo dalla scatola cranica (ancora una distanza…), sono finestre sul quadrato della vita, per cui non c'è niente nell'intelletto che prima non sia stato nei sensi vacillanti ma resistenti. Apparentemente senza spigoli, questo cinema ci costringe all'angolo, rifiutare di sedersi per riposare e gonfiare il petto per impressionare; ci gonfia di botte stereotipate per far scena e poca messinscena; ci lascia comprendere la distanza tra chi le prende per davvero e chi resta a casa per non assistere all'atroce spettacolo. Ma quando è il momento tutto si annulla, tutto si azzera: ogni corpo tende al suo luogo naturale, la grave umiliazione verso il basso e il lieve risveglio verso l'alto…

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