VENEZIA 69 – "Welcome Home", di Tom Heene (Settimana della critica)


Senza cedere alla retorica dei “silenzi colmi di significato”,  sembra che il regista belga riesca quasi a fare a meno del dialogo, non per questo depotenziando il suo ruolo, ma allo stesso tempo senza confinarlo a chiave di lettura esclusiva. Il gioco di specchi che si instaura fra la protagonista e gli uomini in cui viene in contatto, all’interno del quale ognuno di loro allo stesso tempo riflette sé stesso, i propri timori lasciati maturare silentemente dentro sé, la precarietà nascosta dietro le certezze più radicate. Tutto questo sembra spendersi più esaurientemente nel momento in cui, la sola variabile quasi superflua, è appunto quella della parola

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Lila è una giovane brussellése che dopo un periodo trascorso lontano da casa decide di farvi ritorno. Ritorno alla propria città, sorprendentemente un po’ estranea, se vista per un momento con gli occhi di un accompagnatore passeggero in cui ci si imbatte sull’autobus, che magari dopo tanti anni passati lontano, ha trovato il coraggio necessario per provare a immergersi ancora una volta in quello che probabilmente è più l’attaccamento a un’impressione passata, la volontà di rievocarla, che un’urgenza contingente di riappropriarsi di quella fetta di vita. Ritorno dal suo compagno che l’ha attesa per questo periodo, fremente di rancore per le sue mancate spiegazioni su questo soggiorno piuttosto prolungato e di gelosia per il sospetto (forse inconsciamente indotto dalla stessa Lila) di un suo tradimento. Ma sopra ogni cosa, atterrito al solo pensiero di vedersi sfuggire dalle mani ciò che l’uno prova per l’altra. E  forse alla sua vita precedente, quella da cui ha deciso insospettabilmente di fuggire tre mesi prima. La stessa che, nonostante tutto, è riuscita a esercitare la forza necessaria per poterla attrarre ancora.

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In meno ventiquattro ore trascorse da quando ha ufficialmente avuto termine il periodo di riflessione (momento che coincide col suo ritorno a Bruxelles), Lila ha occasione di imbattersi in tre uomini (fra cui il suo ragazzo), incontrati in ambiti e circostanze piuttosto diversi fra loro, che risulteranno in ogni caso componenti omogenee di una nuova prospettiva, di una decisa revisione (per certi versi quasi un’inversione di marcia) delle priorità della giovane protagonista. Tre incontri che avranno il potere di incidere in maniera profonda, effettivamente di plasmare, ciò che prova in quel breve, intenso, forse proprio perché ultimo, intervallo della sua esistenza.
Senza cedere alla retorica dei “silenzi colmi di significato”,  sembra che il regista belga riesca quasi a fare a meno del dialogo, non per questo depotenziando il suo ruolo, ma allo stesso tempo senza confinarlo a chiave di lettura esclusiva. Il gioco di specchi che si instaura fra la protagonista e gli uomini in cui viene in contatto, all’interno del quale ognuno di loro allo stesso tempo riflette sé stesso, i propri timori lasciati maturare silentemente dentro sé, la precarietà nascosta dietro le certezze più radicate, e la Lila di quel preciso istante della serata, costantemente alla ricerca di uno stesso equilibrio, mai uguale a sé stessa. Tutto questo sembra spendersi più esaurientemente nel momento in cui, la sola variabile quasi superflua, è appunto quella della parola.

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