FESTIVAL DI ROMA 2014 – Incontro con Richard Gere per Time out of Mind

Time out of mind

Accolto da una numerosa folla, è stato solo l’attore Richard Gere, in questo caso anche produttore, a presentare il film Time Out of Mind, diretto e scritto da Oren Moverman, che vede l’attore negli inediti panni di un senzatetto.

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Time out of mindÈ stato solo l’attore Richard Gere, in questo caso anche produttore, a presentare il film Time Out of Mind, diretto e scritto da Oren Moverman, che vede l’attore negli inediti panni di un senzatetto.

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Per questo film sei stato non solo attore ma anche produttore. Era un progetto che desideravi da molto tempo?
Sì, per essere precisi ho letto la prima versione della sceneggiatura oltre dieci anni fa, che non corrisponde al film di oggi ma ne conteneva il seme. All’epoca non pensavo di poter fare il film, quindi ho rimandato, ma non sono comunque riuscito a togliermi dalla testa questa storia in tutti questi anni. In qualche modo sapevo cosa farne ma non sapevo come poterlo comunicare. Anni dopo è uscito il libro The Land of Lost Souls, di The Cadillac Man, ovvero gli scritti di una persona che ha vissuto per strada, che è lo stesso tema del nostro film. Lo stile con cui era scritto era asciutto, una sorta di poesia contadina, ed era ciò che cercavo. Ho poi avuto la fortuna di lavorare con Oren, che aveva già scritto alcune sceneggiature che ho recitato, come per esempio Io non sono qui di Todd Haynes. E nonostante sapessi quanto fosse impegnato, e costoso, gli ho comunque inviato la sceneggiatura per lavorarci, e lui ha accettato di lavorarci perché come me ne è rimasto folgorato. Alla fine la produzione vera e propria è cominciata circa un anno fa, ma per fortuna la nostra è stata una relazione collaborativa, perché eravamo totalmente d’accordo su ogni punto.

 

Durante questo viaggio nel mondo dei senzatetto ha scoperto qualcosa che ancora non sapeva?
Ho fatto ricerche per tutti i dieci anni in cui ho voluto realizzare questo film, quindi durante quest’ultimo anno non ho scoperto niente che già non sapessi, ma è stata più che altro una sorpresa continua. Abbiamo deciso che la realizzazione del film sarebbe dovuta essere invisibile. Sarei dovuto essere io, sui marciapiedi, ma l’attrezzatura e la troupe sarebbe stata nascosta, per esempio dietro le vetrine. Temevano che non funzionasse, che potessi essere riconosciuto dalla folla, perciò abbiamo fatto il primo test nel cuore di New York, nel Greenwich Village, dove c’è una forte concentrazione di attività artistiche e dove potevano essere concentrati molti dei nostri potenziali spettatori. Con mia grande sorpresa, nessuno mi ha riconosciuto. Avendo girato in digitale, potevamo permetterci riprese prolungate, credo che la prima sia durata circa 45 minuti, ma nessuno si è mai fermato a guardarmi davvero in faccia. La cosa che avvertivo, fin da due isolati di distanza, era l’avversione che i passanti provavano verso di me, poiché mi identificavano come un barbone.

 

Cosa ha provato nel chiedere l’elemosina?

Vengo dalla tradizione britannica, dove il gesto dell’elemosina, begging, ha un significato diverso da molte altre culture. Nella maggior parte dei casi chi elemosina viene visto come qualcuno che cerca denaro per se stesso, per mangiare, bere o anche drogarsi. Ma per noi l’elemosina equivale a un’offerta, cioè offrire ai passanti la possibilità di compiere un’azione positiva, e avere perciò del merito. Nella nostra condizione di cineasti, noi stavamo facendo la stessa cosa, offrivamo ai passanti una possibilità. Ovviamente non potrò mai provare cosa voglia dire elemosinare, non mi servono né soldi né cibo per sopravvivere, e rimarranno perciò esperienze completamente diverse.
La sua è una scelta che va verso piccoli film, girati in tempi stretti e con budget irrisori, che si piazzano al di fuori degli schemi e degli studios. Secondo lei è questo il futuro?
Penso che sia il futuro non solo per la mia carriera ma per il cinema serio in generale. Queste produzioni indipendenti realizzano film diversi, che magari anni fa trovavano spazio nella produzione degli studios, ma che ora non essendo commercialmente appetibili non vengono più fatti, e bisogna allora trovare il modo di farceli da soli. Nessuno fa soldi con questi film, ve lo assicuro, ma è comunque il futuro. Anche quando si fa il pitch di un’idea, bisogna stare attenti a non pronunciare mai la parola dramma, perché se questa parola salta fuori state certi che nessuna grossa produzione vi darà dei soldi.

 

Quale è stata la riflessione che ha compiuto sulla condizione dei senzatetto? Con la crisi attuale la situazione va peggiorando, e lei si concentra in particolare sulla condizione di assistenza che vige a New York nei confronti di tali persone.

Ci sono circa sessantamila senzatetto a New York, di cui ventimila sono bambini. Sono numeri allucinanti, ma New York è l’unica città al mondo dove è obbligatorio assistere queste persone, e penso sia una cosa straordinaria. Per questo motivo, mentre presento il film qua a Roma, voglio mettermi in contatto con le ONLUS italiane per capire quale sia la situazione qua a Roma e in Italia, per riuscire anche a far vedere il film a più pubblico possibile e sensibilizzare l’opinione. Ma ciò che è importante è che il film non si concentra semplicemente sulla condizione dei senzatetto, ma penso vada a toccare tematiche più universali. Tutti abbiamo il desiderio di appartenere a un luogo, una comunità, senza differenze, è così per tutti. Siamo in un’epoca dove un sacco di persone sono sfollate, rifugiate, senzatetto, ma anche noi, che ci chiudiamo nelle nostre capsule tecnologiche ci allontaniamo dal presente. Tutti, in un modo o nell’altro, ci chiediamo dove sia ciò che possiamo chiamare casa. La città, la nazione, il mondo? Questo è ciò che cerchiamo di chiederci con questo film.

 

Da dove viene la scelta di non raccontare nulla del passato del personaggio? 
Tutti noi facciamo sempre decisioni sbagliate in un breve lasso di tempo. Vedi un uomo sul marciapiede, vedi il suo bicchiere per gli spicci, vedi i suoi vestiti, e vedi dolore, fallimento, lo giudichi in base alle tue paure, in base al suo aspetto e la sua condizione, e decidi già di non guardarlo negli occhi, come se avessi paura che la sua condizione potesse essere trasmissibile. La sceneggiatura originale era difettosa perché raccontava troppo, e questo non mi interessava. Non ho bisogno di essere a conoscenza del background, basta un’occhiata profonda per vedere davvero cosa c’è dentro una persona, basta solo volerci dedicare del tempo. Non volevamo imboccare gli spettatori con una trama lineare. Le informazioni ci sono, ma non vengono date in maniera prevedibile, e non volevamo che ci fosse un perché, non volevamo che gli spettatori capissero un perché, è troppo facile. Volevamo che tutti fossero attenti, vigili, senza usare i soliti meccanismi drammaturgici.

 

Qual è stata la differenza nell’interpretare questo ruolo, così diverso dai suoi precedenti di uomini ricchi e di successo? 

La tecnica attoriale è la stessa, la differenza è a livello filmico. Non è un film che segue una trama, ci interessava rendere l’idea della sensazione, di cosa può essere vivere in questo modo, e dovevamo capire non solo come farlo ma anche come renderlo efficace per due ore. Guardando il film vi accorgerete che in ogni inquadratura vi è una stratificazione di densità, la camera è fissa, a volte si muove ma in maniera impercettibile, non suggerisce dove allo spettatore dove guardare e spesso è difficile capire dove mi trovo esattamente nell’inquadratura. Allo stesso modo funziona l’uso del suono, che qui non sottolinea banalmente l’azione, ma le va contro, creando una cacofonia, un contrappunto.

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