Una maratona senza fine – Il cinema di Amir Naderi

Ogni volta che appare un'opera di Naderi è come assistere al compimento di un miracolo, di una sfida impossibile che si è realizzata. Contro tutto e contro tutti. A partire da se stesso. Nei villaggi iraniani come negli appartamenti, per le strade, nelle metropolitane di Manhattan. Un ritratto del regista di "Marathon"

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Il_corridore,_di_Amir_NaderiLa filmografia di Amir Naderi si scompone in due parti. Nette, almeno da un punto di vista geografico (Iran e Stati Uniti) e temporale (fino al 1988 e dopo). Assolutamente sovrapposte – e nella perfetta continuità di un fare cinema che scaturisce dall'urgenza del dire e dell'esserci, totalmente fisico e minuziosamente ragionato – se osservate dal punto di approccio più intimo e teorico del discorso e del suo farsi, coerente come è raro vedere di questi tempi. Ogni volta che appare un'opera di Amir Naderi è come assistere al compimento di un miracolo, di una sfida impossibile che si è realizzata. Contro tutto e contro tutti. A partire da se stesso. Nei villaggi iraniani come negli appartamenti, per le strade, nelle metropolitane di Manhattan. In entrambi i casi per descrivere, con il movimento, il gesto filmico che avvolge oppure penetra le profondità degli spazi, luoghi e corpi della solitudine e della rivolta, determinati fino all'ossessione a portare a termine una sfida, una maratona, che sembra non avere – e non ha, salvo brevilunghe soste – mai fine. Ragazzini senza casa nel deserto dell'Iran o nei dintorni di una spiaggia oppure trentenni, uomini o donne, perduti in una Manhattan davvero mai filmata così (nel trittico capolavoro composto negli anni e con fatica).

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Amir Naderi nasce nel 1946 nella città portuale di Abadan, nel Golfo Persico, e 'si fa', letteralmente, da solo. Non conosce il padre. La madre muore quando lui ha 5 anni. Frequenta la scuola solo fino alla fine delle elementari. Vive spesso per strada e reagisce: legge, vede film, studia più che può, si trasferisce a Tehran e, adolescente, comincia a inserirsi nel mondo del cinema, fa il fotografo di scena, l'assistente alla regia, studia all'istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini, inizia a occuparsi di fotografia per quotidiani e riviste (lavoro che mantiene tuttora a New York). Questi non sono semplici dati biografici. Qui dentro, in queste esperienze, sta già il cinema futuro di uno degli artisti più immensi dell'arte contemporanea (per captare altri strati della sua ricerca si possono vedere le fotografie 'graffiate' dai muri newyorkesi, contenute in una mostra che qualche anno fa ha girato per l'Italia e in un prezioso volume, "New York City 1997 Frescoes", ovvero 'décollages murali' della metropoli, edito dalla Galleria Ceribelli di Bergamo). Il suo cinema del periodo iraniano – iniziato durante lo Scià e continuato dopo l'avvento al potere della rivoluzione islamica nel 1979 – è popolato di ragazzini (che spesso si chiamano Amir), di situazioni che portano sullo schermo metodi della sopravvivenza quotidiana, della lotta e di una disperazione 'muta' urlata dalla musica, dai rumori, dai silenzi.


In Iran Naderi realizza undici film, tra il 1972 e il 1988, tutti lungometraggi tranne il mediometraggio "Entezar" (L'attesa) del 1975. Pur non facendo film direttamente politici, i suoi testi sono stati spesso oggetto di censura. Ma il suo nome e i suoi lavori rimangono ben inscritti nella storia del cinema iraniano e fotografie (di film e del regista) sono esposte nell'immensa galleria del Museo del Cinema di Tehran. Naderi lavora su forme del realismo che si spostano verso la dimensione della sperimentazione e della visionarietà, del tempo sospeso ma non per questo meno aderente al tempo del presente, alla verità da cogliere.


I suoi primi lungometraggi si collocano nell'adesione a un evidente realismo sociale: "Khodâ hâfez rafiq" (Addio, compagno!, 1972) vede l'amicizia di tre giovani trasformarsi in odio e vendetta dopo aver rapinato una gioielleria; "Tangnâ" (Vicolo cieco, 1974) segue uno dei tre ex amici del film precedente sprofondare in un abisso sociale e in un'impossibile fuga dopo aver ucciso, senza volerlo, una persona; "Tangsir" (1974), realizzato per la distribuzione commerciale, esplora altre forme di vendetta, quella attuata da un uomo contro la classe dirigente; "Sâzdahani" (L'armonica, 1974) è basato sui ricordi d'infanzia di Naderi e ruota intorno all'esistenza di un'armonica, oggetto di scontro fra i bambini di un villaggio della costa meridionale dell'Iran. Con "Entezar" Naderi, nel narrare l'incontro tra un ragazzo e le mani di una donna che lo accolgono in una casa di ricchi, approda a modi filmici meno convenzionali ("considero questo film la mia prima prova nel cosiddetto cinema anti-narrativo, dove i dialoghi hanno scarsa presenza e peso, e sono piuttosto le immagini e i suoni naturali a sostenere il film").


ABC_Manhattan

Tra i vagabondi e i mendicanti è ambientato il durissimo "Marsiye" (Requiem, 1976), che precede "Sâkt-e Irân, Sâkt-e America" (Fatto in Iran, Fatto in America, 1978), che ha per protagonista un pugile. Negli anni Ottanta la filmografia di Naderi si arricchisce del dittico "Jostoju 1" (La ricerca 1, 1980) e "Jostoju 2" (La ricerca 2, 1982), basato sulla rivoluzione iraniana e sulle sue conseguenze, e dei suoi due lungometraggi più noti (anche in Italia, grazie alla diffusione che hanno avuto più volte a 'Fuori orario'): "Davandeh" (Il corridore, 1985) e "Ab, bâd, khâk" (Acqua, vento, sabbia, 1988). I ragazzi protagonisti devono far fronte a situazioni sociali e naturali drammatiche, in opere quasi mute, dominate da quell'energia visiva che mantiene in vita i corpi dei personaggi e chi li filma. La chiusura di ogni rapporto con l'Iran e il passaggio a New York ("vorrei essere ritenuto un filmaker indipendente americano", e sicuramente è il migliore) alla fine degli anni Ottanta costituisce un ri-inizio appunto geografico e culturale. Perché in "Manhattan by numbers" (1993), "A, B, C… Manhattan" (1997) e "Marathon" (2002) non c'è un'immagine che non ci dica, senza mai dircelo apertamente, quanto il cinema di Naderi non sia intimamente cambiato. E continui a farsi e sedimentarsi come una maratona senza fine, a tratti interrotta e poi riavviata. O si fa così o si muore.

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    Ogni volta che appare un'opera di Naderi è come assistere al compimento di un miracolo, di una sfida impossibile che si è realizzata. Contro tutto e contro tutti. A partire da se stesso. Nei villaggi iraniani come negli appartamenti, per le strade, nelle metropolitane di Manhattan. Un ritratto del regista di "Marathon"

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    Amir Naderi nasce nel 1946 nella città portuale di Abadan, nel Golfo Persico, e 'si fa', letteralmente, da solo. Non conosce il padre. La madre muore quando lui ha 5 anni. Frequenta la scuola solo fino alla fine delle elementari. Vive spesso per strada e reagisce: legge, vede film, studia più che può, si trasferisce a Tehran e, adolescente, comincia a inserirsi nel mondo del cinema, fa il fotografo di scena, l'assistente alla regia, studia all'istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini, inizia a occuparsi di fotografia per quotidiani e riviste (lavoro che mantiene tuttora a New York). Questi non sono semplici dati biografici. Qui dentro, in queste esperienze, sta già il cinema futuro di uno degli artisti più immensi dell'arte contemporanea (per captare altri strati della sua ricerca si possono vedere le fotografie 'graffiate' dai muri newyorkesi, contenute in una mostra che qualche anno fa ha girato per l'Italia e in un prezioso volume, "New York City 1997 Frescoes", ovvero 'décollages murali' della metropoli, edito dalla Galleria Ceribelli di Bergamo). Il suo cinema del periodo iraniano – iniziato durante lo Scià e continuato dopo l'avvento al potere della rivoluzione islamica nel 1979 – è popolato di ragazzini (che spesso si chiamano Amir), di situazioni che portano sullo schermo metodi della sopravvivenza quotidiana, della lotta e di una disperazione 'muta' urlata dalla musica, dai rumori, dai silenzi.


    In Iran Naderi realizza undici film, tra il 1972 e il 1988, tutti lungometraggi tranne il mediometraggio "Entezar" (L'attesa) del 1975. Pur non facendo film direttamente politici, i suoi testi sono stati spesso oggetto di censura. Ma il suo nome e i suoi lavori rimangono ben inscritti nella storia del cinema iraniano e fotografie (di film e del regista) sono esposte nell'immensa galleria del Museo del Cinema di Tehran. Naderi lavora su forme del realismo che si spostano verso la dimensione della sperimentazione e della visionarietà, del tempo sospeso ma non per questo meno aderente al tempo del presente, alla verità da cogliere.


    I suoi primi lungometraggi si collocano nell'adesione a un evidente realismo sociale: "Khodâ hâfez rafiq" (Addio, compagno!, 1972) vede l'amicizia di tre giovani trasformarsi in odio e vendetta dopo aver rapinato una gioielleria; "Tangnâ" (Vicolo cieco, 1974) segue uno dei tre ex amici del film precedente sprofondare in un abisso sociale e in un'impossibile fuga dopo aver ucciso, senza volerlo, una persona; "Tangsir" (1974), realizzato per la distribuzione commerciale, esplora altre forme di vendetta, quella attuata da un uomo contro la classe dirigente; "Sâzdahani" (L'armonica, 1974) è basato sui ricordi d'infanzia di Naderi e ruota intorno all'esistenza di un'armonica, oggetto di scontro fra i bambini di un villaggio della costa meridionale dell'Iran. Con "Entezar" Naderi, nel narrare l'incontro tra un ragazzo e le mani di una donna che lo accolgono in una casa di ricchi, approda a modi filmici meno convenzionali ("considero questo film la mia prima prova nel cosiddetto cinema anti-narrativo, dove i dialoghi hanno scarsa presenza e peso, e sono piuttosto le immagini e i suoni naturali a sostenere il film").

    Tra i vagabondi e i mendicanti è ambientato il durissimo "Marsiye" (Requiem, 1976), che precede "Sâkt-e Irân, Sâkt-e America" (Fatto in Iran, Fatto in America, 1978), che ha per protagonista un pugile. Negli anni Ottanta la filmografia di Naderi si arricchisce del dittico "Jostoju 1" (La ricerca 1, 1980) e "Jostoju 2" (La ricerca 2, 1982), basato sulla rivoluzione iraniana e sulle sue conseguenze, e dei suoi due lungometraggi più noti (anche in Italia, grazie alla diffusione che hanno avuto più volte a 'Fuori orario'): "Davandeh" (Il corridore, 1985) e "Ab, bâd, khâk" (Acqua, vento, sabbia, 1988). I ragazzi protagonisti devono far fronte a situazioni sociali e naturali drammatiche, in opere quasi mute, dominate da quell'energia visiva che mantiene in vita i corpi dei personaggi e chi li filma. La chiusura di ogni rapporto con l'Iran e il passaggio a New York ("vorrei essere ritenuto un filmaker indipendente americano", e sicuramente è il migliore) alla fine degli anni Ottanta costituisce un ri-inizio appunto geografico e culturale. Perché in "Manhattan by numbers" (1993), "A, B, C… Manhattan" (1997) e "Marathon" (2002) non c'è un'immagine che non ci dica, senza mai dircelo apertamente, quanto il cinema di Naderi non sia intimamente cambiato. E continui a farsi e sedimentarsi come una maratona senza fine, a tratti interrotta e poi riavviata. O si fa così o si muore.

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