STARDUST MEMORIES – Io e John Candy

John Candy era, è così, di lui te ne accorgevi, te ne accorgi, dopo un po’. Cambi canale e lui c’è, cambi orario e lui c’è, e pian piano capisci che non se ne andrà mai più, nemmeno dopo la notte del 4 marzo 1994 a Durango, Messico: John Candy era forse l’attore meno cinetico della storia del cinema, ed è morto nella totale immobilità

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Alcune memorie sono più schizzate e affettuose di altre, come quelle televisive, con intere programmazioni decennali mandate a memoria nella propria iride e riti universali perpetrati all’unisono nel privato della propria (camer)Mecca: i gialli la mattina, i western nel pomeriggio e gli horror a tarda sera (prima il martedì, poi il giovedì, poi il venerdì, le notti sanguinolente si spostano e si replicano a loro piacimento e a volte a nostra iniziale insaputa); o i film stagionali, My Fair Lady in inverno, Una poltrona per due la vigilia di Natale, Ghostbusters II a Capodanno, il dittico coppoliano I ragazzi della 56ª strada e Rusty il Selvaggio in estate. Memorie capaci di evocare tutto Jerry Lewis e tutto Steven E. de Souza, e che in un angolo della propria adolescenza conservano prezioso il ricordo di John Candy.

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Perché John Candy era, è così: se il cinema è esperienza e la televisione relazione, allora di lui te ne accorgevi, te ne accorgi, dopo un po’. Torni a mente fredda e un sorriso sulle labbra al nome e grado di Stripes – Un plotone di svitati, o qualcosa non ti torna ma trovi che vada bene comunque nel caldissimo ristorante di JFK – Un caso ancora aperto; cerchi di dimenticare la macchina da scrivere di Fuori di testa e poi ripassi a memoria l’itinerario di National Lampoon's Vacation – e se fossi anglofono sceglieresti l’altro fratello Wright, il Wilbur di Bianca e Bernie nella terra dei canguri. Per chi non ha visto i suoi 6-foot-3 inch x 275 pounds al cinema, il canadese dal secondo nome Franklin torna anno dopo anno con titoli per tutte le stagioni, da un’altra piccola scheggia familiare come La piccola bottega degli orrori all’inspiegabile titolo italiano de La corsa più pazza del mondo n.2. Cambi canale e lui c’è, cambi orario e lui c’è, e pian piano capisci che John Candy non se ne andrà mai più. Non come la notte del 4 marzo 1994 a Durango, Messico: lasagne preparate per i suoi assistenti, una telefonata all’attore Richard Lewis, una dormita per poi riprendere la mattina seguente le riprese di Wagon East! – cosa che non farà, né su questo né su nessun altro set, per un attacco di cuore che lo stronca nel sonno, a 44 anni. John Candy era forse l’attore meno cinetico della storia del cinema, ed è morto nella totale immobilità.

 

Forse in modo che nessuno potesse vederlo contorcersi e andarsene via, per poter pensare che lui è ancora tra i 24 fotogrammi al secondo, dentro al palinsesto di Halloween o di Pasqua. Forse per potergli chiedere ancora aiuto, come fanno la maggior parte degli altri personaggi dei suoi film, che sia per ritrovare la figlia come in Chi è Harry Crumb? o assisterli nella scalata amorosa e al successo di Chi più spende… più guadagna!. Ma non c’è bisogno di chiedere a John Candy, basta che lui sia lì accanto a te per vedere che dentro hai qualcosa che non va, e allora il suo aiuto arriva anche se sei lacerato e non riesci nemmeno a provare più niente. John Hughes lo sa, ha pesato e non ha trovato mancante questo biondo canadese che diviene lo sguardo ostinato eppur lieve con cui entrare dentro le case di Chicago di Un biglietto in due e Io e lo zio Buck – qualcuno dovrebbe scrivere sulle case dei film di Hughes, che hanno tutto quello che le case americane in festa dovrebbero avere. Un biglietto in due è un continuo scavare dentro se stessi, miglia dopo miglia, per due uomini che più diversi non si potrebbe come Steve Martin e John Candy, entrambi intenti a specchiarsi negli anni perduti dell’altro, fino a ricomporre in una stazione vuota un unico dolore in due, un unico biglietto in due. Io e lo zio Buck contiene invece uno dei ritratti più intensi e indimenticabili della scrittura di Hughes, l’adolescente Tia (interpretata dall’esordiente Jean Louisa Kelly), che assieme allo zio Buck di Candy schiuderà la forza e la bellezza di una ragazza prima prigioniera sul baratro del mondo, tutta silenzi e occhi persi a guardare di lato, lontano. John Candy in questi due titoli è un grumo di dolore e spensieratezza, difficoltà e capacità di cavarsela, che dietro la silenziosa fierezza nasconde la solitudine di chi è sempre in disparte – e John Hughes sa anche questo, chiudendo Un biglietto in due e Io e lo zio Buck sul viso di Candy, in immagini che non se vanno per molto tempo.

 

E John Candy è sempre in disparte. Le vibrazioni con cui scuote le scene che lo vedono per un attimo protagonista, le “orange whip?” di The Blues Brothers o il “polka king of the Midwest?” di Mamma, ho perso l’aereo, rimangono ma lui va presto oltre. Non fa quasi mai totalmente parte delle vite di quelli che gli stanno attorno, e se lo diviene è per poco, il tempo di capire e salvare qualcuno, e poi lui o chi gli sta attorno vanno via. Il fratello di una vita Tom Hanks lo abbandona per l’amore impossibile della sirena Daryl Hannah in Splash – Una sirena a Manhattan, ma non è tradimento perché Candy già lo sapeva: “Some people will never be that happy. I'll never be that happy” dice a Hanks, facendogli capire che deve seguire quell’amore e lasciarlo indietro, lui che resta non avrà mai lo stesso amore e quindi va bene così. Ma a volte questo è solo il passato, con il presente – che è il cinema – che permette finalmente ai suoi personaggi di voltare lo sguardo da chi è stato lasciato indietro. Succede, naturalmente a Natale, in Cara mamma, mi sposo (adattamento del bellissimo e royorbisoniano Only the Lonely originale), dove dopo un’intera vita spesa per tenere unita la famiglia priva del padre, a tenere salde le esistenze della madre, del fratello, degli amici, Candy trova l’amore nella timida e fragile Ally Sheedy, e adesso non sarà solo lui ma saranno loro. O in Cool Runnings, manifesto disneyano in cui la storia della nazionale jamaicana di bob diviene riscatto personale e d’amicizia di Candy, che in quei quattro ragazzi trova l’eredità del proprio passato spezzato che ora può farsi gioioso presente. No, John Candy non è mai andato via grazie al cinema, perché in quella notte del 4 marzo 1994 si è addormentato con una frase di Io e lo zio Buck, “But it’ll all be better tomorrow. It always is”, e si è risvegliato con l’ultima canzone di Cool Runnings, I Can See Clearly Now di Jimmy Cliff.

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