"Requiem", di Hans-Christian Schmidt

Una complessità costantemente sussurrata. Gli artifici della macchina da presa restano in secondo piano rispetto all'enormità di non-detto che rappresenta la principale fascinazione del film. Un racconto per sottrazioni e dettagli di isolamento, per attimi e atmosfere, che lascia il compito più difficile nelle mani dello spettatore

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Una complessità costantemente sussurrata, questo è Requiem, il quinto film di Hans-Christian Schmidt che è valso all'attrice (Sandra Hüller) l'Orso d'Argento al Festival di Berlino. Gli artifici della macchina da presa – zoom, sbalzi – regalano a tratti un surplus di precarietà al corpo della protagonista, ma restano comunque in secondo piano rispetto all'enormità di non-detto che rappresenta la principale fascinazione del film. Michaela è stata appena ammessa all'università. Vive in una piccola comunità e in una famiglia molto religiosa. Michaela è epilettica, determinatissima a non farsi condizionare, e ad iniziare il nuovo percorso trasferendosi nella grande città…Quelli della protagonista sono un corpo e una mente sospesi e dilaniati da un conflitto perenne, che non l'abbandona neanche per un minuto del film. Questo emerge quasi subito nel rapporto terribile con la madre: terrorizzata all'idea della figlia malata e sola, la donna è fonte/bersaglio del senso di colpa e delle sue conseguenze micidiali sulla psiche della ragazza. Un conflitto raccontato con la spola tra quotidianità nella residenza universitaria e weekend in famiglia, alternanza tra due realtà – entrambe parti di Michaela, che fallisce continuamente nel tentativo di conciliarle – che è destinata a far esplodere il disagio della protagonista. Il desiderio di vivere – una gioia rara e splendidamente interpretata nella prima scena della discoteca – crescere, essere 'normale' (studiare, avere un ragazzo, comprare dei bei vestiti) cozza con i dettami della religione: sacrificio, astinenza, mortificazione del corpo. Nel frattempo, la radice che lega la personalità della protagonista all'ambiente in cui è cresciuta – raccontato per sottrazioni e per dettagli di inesorabile isolamento – emerge progressivamente: quello che sembrava potersi finalmente spezzare (o, almeno, sbiadire) travolge le esistenze. E' allora che Michaela, mentre si butta in modo malato e morboso nello studio, si rifiuta in maniera sempre più drammatica di accettare le diagnosi di una possibile psicosi e fa convergere ogni suo disagio sul rosario regalatole dalla madre.

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Un groviglio terribile. E Requiem non pende da nessuna parte. Non c'è direzione verso la realtà della possessione, né verso quella della schizofrenia. Medici invisibili richiedono accertamenti, ma la Hüller – nell'unica scena di crisi aggressiva – fa paura, e molta, senza effetti speciali. Inquietanti, se non disgustosi, sono i rappresentanti della Chiesa, sospesi tra autoritarismo falsamente legittimato e interessamento ambiguo, aiutanti e nemici a fasi alterne. Schmidt gestisce la complessità di una storia privata con implicazioni multiple -sociali, religiose, psicologiche, scientifiche – comunicando per attimi e atmosfere, e lasciando al pubblico (nell'ultima scena) il difficile compito di giudicare la natura delle ombre ramificate che si allungano sul volto e sull'esistenza di Michaela.

Titolo originale: id.


Regia: Hans-Christian Schmidt


Interpreti: Sandra Hüller, Burghart Klaußner, Imogen Kogge, Anna Blomeier, Jens Harzer, Walter Schmidinger


Distribuzione: Lucky Red


Durata: 93'


Origine: Germania, 2006

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