C’era una volta a New York, di James Gray

Ci risucchia nell’oscurità, assorbe le nostre anime in eterno e fonde il sogno europeo con quello americano. Ancora un film vertiginoso per il cineasta con Phoenix e Cotillard sublimi.

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L’odissea continua… James Gray ci risucchia nell’oscurità, assorbe le nostre anime in eterno, partendo dall’isola di Ellis nella baia di New York. ma dal nero si esce rigenerati, non corpi estranei ai territori del sensibile. Immigrati cercano fortuna, Marion Cotillard deve salvare sua sorella, bloccata dai controlli perché malata di tubercolosi. Ha bisogno di soldi, tanti soldi e la donna polacca e’ costretta a prostituirsi. Joaquin Phoenix è Bruno, va in aiuto di Sonya, le offre un lavoro: allietare i suoi clienti in spettacoli burlesque e con prestazioni sessuali. Lei diventa l’attrazione principale, la statua della libertà, con il dito medio alzato (metaforicamente…). Metaforico è tutto il cinema di James Gray, meraviglioso figlio a stelle e strisce che compenetra il sogno europeo in quello americano. Sogno americano o magari incubo, un flashback in cui Sonya, in un campo di grano sovraesposto, ricostruisce probabilmente un trauma giovanile o un lieto ricordo. Si smorza sullo svelamento, ancora una volta l’esistenza ci risucchia nel piccolo appartamento di New York, anni ’20, dove bisogna odiare e pregare.

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James Gray e’ James Gray, uno dei piu’ grandi registi in circolazione. Sarebbe il caso di lasciar perdere, almeno per una volta, tutti i richiami cinematografici che l’autore dispiega dinanzi ai nostri occhi. Solo Dio dimentica… potrebbe essere vero, ma James Gray oggi non è più soltanto la fierezza di Martin Scorsese e Paul Schrader insieme, o il sublime naturalismo di Ernst Lubitsch. Pensi ad un deragliamento, un naufragio, dopo thriller e drammi, invece i corpi pulsano in fondo della stessa materia. Livido, duro, magmatico, come sempre, con la polvere che copre i ricordi, Gray scopre però per noi l’amore, di origine classica, dove la storia sembra dipanarsi rispettando la cronologia del girato, in cui senti addosso tutto il peso della colpa, del violento attacco agli affetti. In fondo, è sempre un thriller morale in cui un debordante Phoenix e una casta Cotillard lottano.

Gray non ci lascia sorvolare, ma abitare il mondo: abitare il nostro sorvolo, abitare nel sogno e planare sulla realtà. Occhio divino che rende i corpi fondi del loro ambiente e l’ambiente figure tra i corpi stessi. Permeabile e penetrante, il cinema ospita un nuovo corpo che ha il pudore di seni al vento, manganellate nell’oscurita’ del tunnel, tranciata dalle torce della rappresaglia, nel tempo della candelora, per un “ebreo ortodosso”. Dicevamo, l’odissea continua… la pulsione dell’erranza, restando a New York, facendosi inghiottire dalla città, da quattro mura, dalla baia, dal canto operistico di Caruso, dalle profondita’ di campo fosche e misteriose. Sembra di essere in un quadro di Magritte nella prima inquadratura, con Bruno ripreso di spalle e con il suo cappello, quasi una bombetta. Sembra suggerire che proprio quando la gente cerca di trovare significati simbolici in ciò che gira, cerca qualcosa di sicuro su cui aggrapparsi, per difendersi dal vuoto…. Un istante di panico è quello che lo fa rientrare in se stesso (Sonya dorme sempre con uno spillo sotto il cuscino). Questi sono gli istanti privilegiati che trascendono la mediocrità. La soddisfazione di ogni desiderio è sempre altrove rispetto a laddove ci aspettiamo che sia, perché sappiamo che il desiderio sta racchiuso in questa erranza, perché sappiamo che l’homo è viator, essere in cammino, in continuo divenire, perché sappiamo che la terra senza male è quella dei molteplici incontri, delle strade aperte senza indicazioni o numerazioni, perché sappiamo, come Sonya (che non ha mai visto una banana), che la vita sociale si forma in un dedalo di strade (due amori, e niente più) e che il viaggio è l’archetipo del percorso della vita umana. Padrone della notte, immerso in questo liquido dionisiaco che ci stordisce la mente, come quel vino forte che mescolato con acqua dà un senso di ebbrezza, di eccitazione, di euforia incontrollata.

Non macina tante “yards” stavolta,  è crudo, è duro, come il sudato pane del giorno prima. I corpi ci coprono, li senti addosso e vorresti girarli, proprio come leggere pagine di letteratura filmata. Ad un certo punto, negli occhi dei protagonisti non scorgi solo il sogno americano, quando li chiudono per poi riaprirli, si apre una dissolvenza sul cinema non propriamente classico a stelle e strisce, ma meravigliosamente di natura apolide, fatta di colorismo impastato direttamente sulla tela, sulla tavola della storia, nella sovrapposizione di strati successivi di materia filmata. Poi però non bisogna preoccuparsi, Gray ci ricorda il suo spirito d’azione pura, quasi impercettibile, tutta in tensione, che abbraccia lo stupore e la disperazione in un solo battito di palpebre. È l’accoltellamento che ci fa lievitare, non tanto ovviamente per la potenza in se, ma per l’atto in noi. Ma è il finale che ci porta via definitivamente. I nostri occhi ignari assistono al compimento del miracolo. La colpa ci da le spalle, ma il perdono prende il largo nello “split screen” naturalistico, tecnologicamente indistruttibile. E le porte dell’ignoto fantascientifico si dischiudono…

 

Titolo originale: The Immigrant
Regia: James Gray
Intepreti: Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner, Dagmara Dominczyk, Jicky Schnee, Elena Solovey, Maja Wampuszyc, Ilia Volok, Angela Sarafyan, Antoni Corone
Distribuzione: BIM
Durata: 120′ 
Origine: USA, 2013

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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