Shōgun, di Rachel Kondo e Justin Marks

Il romanzo di Clavell rivive in un adattamento radicale, che ne annulla l’esotismo di fondo, fino ad innervare il racconto, e la Storia del Giappone, di prospettive e sensibilità inedite. Su Disney+

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Un’inversione drastica del punto di vista: sembra essere questa l’istanza dominante a cui Shōgun ha votato tutti i suoi discorsi e linguaggi, soprattutto nel momento in cui paragoniamo la serie alla precedente trasposizione televisiva di cui è stato oggetto l’iconico romanzo di James Clavell. Fino ad adesso, nella memoria collettiva degli spettatori americani, la storia dell’arrivo del pirata inglese John Blackthorne sulle coste di un Giappone in procinto di un cambiamento epocale è sempre stata associata alla produzione di NBC del 1980, responsabile – a suo tempo – di aver creato un ponte culturale enorme tra due nazioni (quella nipponica e gli Stati Uniti) già connesse da legami storicamente indissolubili, al punto da favorire nel cuore dell’America l’introduzione di alcuni dei principali prodotti di esportazione della cultura giapponese, dal karaoke fino ai sushi bar. Ma se agli occhi degli americani, la miniserie con co-protagonista Toshirō Mifune rappresentava l’avvento di una collaborazione produttiva senza precedenti, per il pubblico nipponico si configurava invece come il manifesto dell’attitudine hollywoodiana ad esotizzare una storia puramente autoctona. Un fenomeno, questo, che è stato completamente scardinato dalla nuova trasposizione del romanzo.

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A guidare, allora, questo secondo adattamento televisivo di Shōgun è la necessità degli autori di riscoprire l’autoctonia in una Storia (quella con la S maisucola) culturalmente barbarizzata, attraverso un’operazione radicale di ri-appropriamento del punto di vista. Il racconto, a ragion di logica, segue le medesime traiettorie codificate da Clavell, ma a mutare sono sia i registri con cui vengono narrate, sia le politiche rappresentative su cui, inesorabilmente, si fonda la narrazione. Ci troviamo, appunto, nel Giappone di inizio XVII Secolo: il paese è dilaniato da lacerazioni interne, e l’improvvisa morte del taikō lascia dietro un vuoto legislativo enorme, su cui si catalizzeranno le attenzioni e i desideri di potere dei cinque signori feudali (i daimyō) più influenti della nazione. E in un contesto socio-politico così incerto ed impervio, approda per la prima volta sulle sponde dell’arcipelago un navigatore inglese, John Blackthorne (ispirato a William Adams, e interpretato da Cosmo Jarvis) che a quel punto diverrà una pedina inconsapevole nelle macchinazioni sanguinarie del quintetto di Reggenti.

Se il romanzo originale racconta l’intreccio attraverso gli occhi di un occidentale, il nuovo adattamento di Shōgun inverte sin da subito tale strategia (scopica, narrativa, e anche ideologica) per proporre una potente dichiarazione d’intenti: sull’orizzonte semantico in cui si muoveranno gli eventi, e soprattutto sulla natura stessa della storia, ora destinata a recuperare – o meglio, ad attivare – quella matrice autoctona (e quindi puramente giapponese) di cui il racconto è stato ripetutamente privato sotto lo scalco dell’occidentalocentrismo. E il motivo è da ritrovare proprio nella valenza storica e simbolica di cui si innervano questi intrecci: predisposti, come sono, a raccontare l’ascesa di Tokugawa Ieyasu (qui denominato Toshii Toranaga, a cui dà il volto uno shakespeariano Hiroyuki Sanada) e, di conseguenza, l’avvento del cambiamento più radicale e importante nella Storia del Giappone: ovvero l’unificazione del paese sotto lo shogunato, e l’inizio del più lungo periodo di pace (e di chiusure agli influssi esterni) conosciuto dall’arcipelago nel corso dell’Era Tokugawa (1603-1868).

Ecco allora che Shōgun elimina lo spirito avventuriero, nonché smaccatamente romantico, del precedente adattamento del 1980, per entrare nelle pieghe tragiche degli intrecci di potere, mediante uno sguardo – e un linguaggio – puramente nipponico. Al punto che Blackthorne, da osservatore diretto degli eventi, diventa qui una mera pedina nelle mani di Toranaga e di coloro che gli stanno affianco, le cui storie, sensibilità e schemi narrativi (e di pensiero) assumono una centralità assoluta e netta, che la serie traduce saggiamente in una supremazia della lingua giapponese su quella inglese: proprio perché gli idiomi dei nipponici costituiscono l’unico veicolo attraverso cui innervare di una valenza autoctona una storia così innegabilmente nazionale. Portando in questo modo il racconto a porsi pienamente in continuità con le politiche rappresentative – e come vedremo, anche di gender – verso cui si sta dirigendo sempre più la Hollywood contemporanea: di cui questa nuova reiterazione dell’opera appare il manifesto più lucido e memorabile.

La serie, perciò, non si ferma “solamente” a questo livello: per nulla. Perché il suo orizzonte comunicativo, per poter assumere ancora più rilievo, deve abbracciare l’insieme dei fenomeni culturali che stanno attraversando, rimodulandolo dall’interno, l’intero campo della rappresentazione hollywoodiana, relativo – come logico che sia – all’espressione della soggettività femminile, anche – e soprattutto – in una cornice a trazione patriarcale. E non è un caso che la stessa Lady Mariko (Anna Sawai) non rappresenti più in Shōgun il mero oggetto del desiderio di Blackthorne o la cassa di risonanza delle fantasie esotizzanti dell’uomo: ma diventi qui lo specchio della condizione di subalternità in cui è costretta a vivere la donna agli albori del Periodo Edo – e, con le dovute differenze, nel Giappone odierno – e a cui decide sì di sottostare, ma senza reprimere la propria soggettività.

È in questo modo, infatti, che la serie riesce a raccontare la repressione della sensibilità femminile, mediante la sua incontenibile rappresentazione: l’unico modo, agli occhi degli autori, per canalizzare in un racconto così assiomatico prospettive e vissuti inediti, evitando nel contempo di cadere nelle vituperabili trappole degli anacronismi. Tanto che da qualunque prospettiva la si osservi, questa nuova versione di Shōgun appare come un punto di svolta nodale nella serialità contemporanea: capace, com’è, di invertire anche gli assunti più dogmatici. E di farli rivivere in una storia deflagrante, che ci parla del legame tra cupidigia e sogno, tra ambizione e idealismo. In cui ogni spettatore può rifugiarsi, e ritrovare, nelle fantasie di uomini (stra)ordinari, qualcosa di sé stesso.

Titolo originale: id.
Regia: Jonathan Van Tulleken, Charlotte Brändström, Frederick E.O. Toye, Hiromi Kamata, Takeshi Fukunaga, Emmanuel Osei-Kuffour
Interpreti: Hiroyuki Sanada, Anna Sawai, Cosmo Jarvis, Tadanobu Asano, Fumi Nikaido, Takehiro Hira, Tommy Bastow, Tokuma Nishioka, Néstor Carbonell, Shinnosuke Abe, Moeka Hoshi, Yasunari Takeshima, Hiroto Kanai, Yuki Kura, Eijiro Ozaki
Distribuzione: Disney+
Durata: 10 episodi da 53-70′
Origine: USA, 2024

La valutazione della serie di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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