La strada della vergogna, di Kenji Mizoguchi

Il film conclusivo del regista ridisegna i temi più simbolici del suo cinema, per legarli alle trasformazioni di un paese ancora immerso nelle sue insicurezze post-belliche. Su Criterion Cannel

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Tutto il cinema di Mizoguchi potrebbe essere interpretato come un campo di forze: uno scontro continuo di corpi e azioni, che confondono i confini tra interno ed esterno, fino ad implodere. Ciò che vive ed è confinato in uno spazio domestico – ovvero la donna – è destinato inerte a subire le ripercussioni del fuori campo, in una società connotata (se non stigmatizzata) come patriarcale, che esiste proprio perché (r)esiste a qualsiasi vocazione di cambiamento o evoluzione civile. Eppure a guardare La strada della vergogna, cioè il film che insieme chiude e sintetizza la carriera del regista, si notano delle soluzioni inedite, da non ricondurre a quell’opposizione di forze contrastanti che arriva ad ingabbiare i personaggi femminili in una realtà cruda, anti-soggettivista, e quindi ingiusta. A cambiare, adesso, è il modo in cui queste forze si rivelano nel mondo. In vista di trasformazioni societarie, che assumono ancor più significato se osservate alla luce di quei venti del cambiamento, che in piena ripresa post-bellica, stavano rivoluzionando dalle fondamenta la contemporaneità del Giappone.

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Tutto parte dall’anno di uscita di La strada della vergogna, quel 1956 che richiede ai cittadini di adattarsi ai grandi rivolgimenti (politici, sociali, economici) che il Giappone si trova per la prima volta nella sua storia post-bellica a dover cavalcare – e non più a subire. Fino a questo momento, infatti, la neo-democrazia del Sol Levante è stata vittima – e non artefice – delle innumerevoli trasformazioni che l’hanno costretta ad abbandonare le fortificazioni nazionalistiche di stampo imperiale in favore dei “corretti e giusti valori democratici dell’Occidente”. Ma adesso il paese è pronto a riprendere il controllo del proprio destino: l’occupazione americana (1945-1952) è terminata da tempo, così come la lunga stagnazione economica che ne ha compromesso una crescita autonoma e indipendente. La modernità importata dagli statunitensi è solo l’ultimo segno di un mutamento di costumi e tradizioni, che Mizoguchi qui interpreta in uno stato di forte incertezza nazionale. Inquadrando così le insicurezze di un paese, che per poter sognare il futuro, cerca (invano) di demolire tutto ciò che non sta apparentemente al passo con i tempi: tra cui, appunto, la prostituzione.

Le cinque cortigiane de La strada della vergogna sono catapultate sin da subito in un mondo inquadrato sul ciglio del cambiamento. Nella Dieta (il parlamento giapponese) sta per passare una risoluzione che renda illegale l’esercizio della prostituzione, portando così i destini delle donne a scontarsi con le soglie di una realtà incerta, nebulosa, e perciò fortemente destabilizzante. Ognuna di loro rischia di veder crollare le fondamenta delle loro esistenze, quegli stessi pilastri su cui hanno costruito una parvenza di sicurezza (emotiva, finanziaria, esistenziale) anche in faccia ad un presente che strenuamente le relega ai margini della scala sociale. Come ne I racconti della luna pallida d’agosto o ne La vita di O-Haru (1952), anche qui il mondo esterno, metaforizzato dalle concezioni patriarcali dei parlamentari nipponici, arriva a sovvertire uno spazio interno, vissuto sempre più come precario, in bilico tra l’affermazione dell’espressione femminile, e le costrizioni di un mondo incapace di tollerare l’autonomia – se non la sopravvivenza – del “subalterno”. Ed è qui che La strada della vergogna, in quanto culmine e simbolo della poetica di Mizoguchi, attiva tutti i cortocircuiti del suo cinema: negli struggimenti di Yumeko (Aiko Mimasu) ritroviamo i tormenti materni de L’intendente Sanshô (1954), così come i percorsi delle giovani Yasumi (Ayako Wakao) e Mickey (Machiko Kyō) ricordano rispettivamente la natura costrittiva del legame paterno di Elegia di Osaka e l’insofferenza verso tradizioni vissute come repressive di La musica di Gion (1953). Ma il film, come le migliori opere-simbolo, non si arrocca sulle traiettorie interne alla poetica del maestro: le rilegge alla luce del contemporaneo, ne re-interpreta le istanze, fino a portarle verso orizzonti inediti, inesplorati, che anticipano le soglie di un futuro incerto. Tutto ancora da scoprire – o temere.

Non è un caso, allora, che la prevalenza di toni umoristici e dissacranti di La strada della vergogna – visibile in particolare nella strabordante modernità di Mickey – contrasti con le traiettorie da incubo di Le donne della notte (1948). E il motivo è da ritrovare proprio nelle mutevolezze del periodo storico-culturale in cui si ambientano i percorsi delle protagoniste. Perché le prostitute che Mizoguchi ci vuole qui raccontare non possono subire lo stesso trattamento riservato alle loro omologhe del ’48. I sobborghi della grande metropoli sono cambiati, e i disfattismi con cui ne raccontava le configurazioni risultano adesso anacronistici, soprattutto alla luce delle asserzioni trionfalistiche di un paese, che nel ’56 dichiara orgogliosamente la fine del periodo post-bellico, e il principio dell’era moderna. E in un contesto dove il nuovo è solo un’altra facciata del passato, Mizoguchi ha la lucidità e il coraggio di ritagliarsi un raro spazio di libertà, in cui è l’attesa per un avvenire inconoscibile, e non il nichilismo di una realtà avvilente, a governare i destini delle donne. Tese così a respingere “l’afflato di modernità” che si dirama dalle stanze del parlamento, per convivere con le (in)certezze di una condizione mai veramente mutabile: quella di profonda disparità in cui versa storicamente la donna giapponese.

Ed ecco che l’inquadratura finale assume ora ancora più significato. Già la sua natura conclusiva, di taglio ultimo, risolutivo di una carriera leggendaria, è di per sé sinonimo di eternità cinematografica. Ma ciò che la rende veramente immortale, il motivo che ci porta dopo settanta anni a riconoscerla come immagine sacra e assoluta della filmografia del maestro, trascende il suo posizionamento narrativo o temporale. Nella fragilità della giovane ragazza, inquadrata nel tentativo di richiamare a sé il primo cliente della sua vita, troviamo infatti la sintesi di tutto il cinema di Mizoguchi. Il volto teso e curioso della vergine, ripreso qui – guarda caso – in continuità e senza movimenti di camera mentre tenta di nascondere il disagio dietro le cornici di una porta, restituisce non solo il senso di incertezza che trapela da ogni scena di La strada della vergogna, ma anche un’immagine di innocenza strappata, lacerata e obliterata, che la connette alle eroine tragiche di cui si è popolata la filmografia del regista sin dai tempi del muto. Cosa raffigura, allora, questa inquadratura se non l’ennesima visione di un mondo ingiusto, che condanna le sue creature ancor prima che esalino una parvenza di espressività o giudizio? Forse il senso del film (e del suo cinema) sta tutto qui. Nello sguardo di una ragazza che si affaccia con discrezione dall’uscio di un bordello. In attesa che il mondo la cambi. E che la colpisca con la ferocia delle sue verità disumane.

Titolo originale: Akasen Chitai
Regia: Kenji Mizoguchi
Interpreti: Machiko Kyō, Ayako Wakao, Aiko Mimasu, Michiyo Kogure, Kumeko Urabe, Yasuko Kawakami, Hiroko Machida, Eitarō Shindō, Sadako Sawamura
Distribuzione: Criterion Channel
Durata: 87′
Origine: Giappone, 1956

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
Sending
Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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