#Giffoni2018 – Mamma Mia! Ci Risiamo, di Ol Parker

La seconda parte del celebre musical sembra l’ologramma di un passato risplendente, un variety show fatto tra amici che si dissolve una volta spenta la luce. In anteprima a Giffoni

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“Ho un sogno, una canzone da cantare
Che mi aiuti a far fronte a tutto
Se riesci a vedere la meraviglia di una favola
Puoi sopportare il futuro, anche se fallisci”
(“I believe in Angels”, ABBA)

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E’ possibile credere ancora negli angeli? Forse a questo punto, proporre un altro musical – nel suo stato puro, brutale, con tutte le regole del genere – è un vero atto rivoluzionario, come fidarsi degli angeli, come credere nelle favole, nei miracoli, nei musical. Mamma mia! Ci risiamo di Ol Parker (Imagine Me & You), l’atteso e colorato prequel/sequel di Mamma Mia! di Phyllida Lloyd, più che una scommessa o un atto di fede, sembra il riflesso di un qualcosa già scaduto, di una stella lontana, la costruzione di un presente che trova un senso soltanto nel luccichio del passato. L’eco in loop dei suoni degli anni Settanta e il successo mondiale degli ABBA, una melodia in repeat in cerca di una spinta, di quell’ultimo e debole fiato, prima dell’esaurimento definitivo.

Forse giocare col tempo è l’unico modo di sfidare la morte. La proposta di Ol Parker, si

costruisce sulla base di far tornare in vita le cose già inerti, andare avanti / indietro e manipolare la continuità degli eventi ma soprattutto prendere il film precedente come fonte inesauribile, come unica risorsa per sottolineare il valore del presente. Mentre vediamo, attraverso flashback, la gioventù dell’effervescente Donna (Lily James) e suoi incontri fugaci con i giovani Sam (Jeremy Irvine), Harry (Hugh Skinner) e Bill (Josh Dylan), seguiamo pure Sophie (Amanda Seyfried) che torna all’isola di Kalolairi dopo la morte di Donna (Meryl Streep), per portare avanti l’eredità della madre. Con lei – e come se fossero anche loro dei fantasmi, degli ologrammi di un’altra realtà, oppure la prova del passaggio del tempo – sbarcano i personaggi secondari che sono alla fine gli elementi più esilaranti e freschi del film: le amiche storiche di Donna, Rosie (Julie Walters) e Tanya (Cristine Baranski) e i tre “genitori” di Sophie, Sam (Pierce Brosnan), Bill (Stellan Skarsgård) e Harry (Colin Firth). La comparsa di Cher, nel ruolo della madre di Donna – come una versione drag queen di se stessa e rovesciando lo status quo dei classici brani degli ABBA – porta oltre quest’idea di ologramma, di una stella lontana ma che continua a brillare, soltanto perché porta a galla un passato risplendente.

Come la casa in rovina sull’isola greca che Donna si impegna in sistemare, e che deve per forza distruggere per poter costruirci qualcosa sopra, il racconto di Parker si sviluppa su una fondazione morbida, già utilizzata, che rende fragile la possibilità di permanenza, di consistenza. C’è pure un qualcosa d’incompiuto, d’irrisolto nella struttura del musical come corpo cinematografico, in quanto rappresenta l’incontro di due dimensioni contrarie: da un lato il messaggio rumoroso e stridente della voce che si alza e canta all’improvviso, sottolineando l’intenzione del personaggio. Allo stesso tempo, è tutto un’esacerbazione di un pensiero silente, di un linguaggio segreto, muto, di un discorso che non si riesce a esprimere e trova la sua via d’uscita nell’illusione di farsi sentire. Ma cosa succede quando queste due dimensioni si scontrano? Quando la sostanza di ciò che si dice – o si canta – non trova una coerenza nel racconto e nelle azioni e finisce per perdere forza, dissolversi e poi sparire? Possiamo ancora costruirci qualcosa sopra?

Quello che rimane è un gioco tra amici, un momento piacevole, un variety show, una catena di numeri musicali efficaci e a volte emotivi che spariscono troppo presto per fare strada alla gag consecutiva. Una serie di incontri, di scene, di eventi, di cui conosciamo già il finale. Una galleria di personaggi che sembrano parte di un museo, che spariscono e diventano inerti una volta spenta la luce. La loro salvezza, allora, diventa la musica, quel suono che li riporta per un’attimo alla vita, che lascia andare tutta la loro potenza, quella energia trattenuta, per poi ripiegarsi e tornare dentro la loro scatola musicale.

Se nel primo Mamma Mia! c’era l’interesse della novità, la spinta della nostalgia e un senso più spietato d’assurdo, di “tragedia greca” che anche se portata avanti solo nella superficie riusciva a aggiungere un certo livello di spessore, Mamma Mia! Ci risiamo assomiglia di più a una brezza che ti passa sottile sopra le spalle, che riesce a muoverti un po’ ma poi ti riporta allo stesso luogo, un’illusione colorata e stridente fatta di bei paesaggi, tramonti da cartolina e oggetti di scena. Ma una volta sparito il trucco e il trenino, una volta spento il flash e dopo aver messo Dancing Queen in pause, rimane solo uno scenario vuoto. Al massimo, la silhouette sfumata di una donna che indossa un abito troppo stretto e pantaloni a zampa, che poi chiude gli occhi e alza il gomito per raggiungere una nota persa.

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